La competizione dei VPRO Tiger Awards è la sezione più importante del Festival di Rotterdam: la sua specificità consiste nello scoprire e far conoscere i nuovi talenti del cinema mondiale promuovendo opere innovative e non convenzionali. Registi che godono oggi di fama mondiale come Pablo Trapero, Christopher Nolan e Hong Sang –Soo, sono stati in passato premiati con il Tiger. I quindici film in competizione sono per lo più delle opere prime: per i tre vincitori il premio consiste in una ricompensa di 15.000 euro a testa e nella trasmissione dei film su VPRO, rete della televisione nazionale olandese. Di fatto tutti i partecipanti traggono profitto dai Tiger Awards: una selezione in questa sezione è già di per se’ una riuscita perché corrisponde a una sorta di certificato di qualità. In questo senso i Tiger sono una piattaforma di promozione ideale che apre ai film le porte di altri festival, facilita la loro distribuzione ed il finanziamento di ulteriori progetti.

In realtà i 15 film selezionati quest’anno, pur essendo stati scelti in base a criteri di qualità comuni, rappresentano un insieme di opere assai poco omogeneo. Accanto a un film quasi main-stream, di fattura classica, ben raccontato ma senza sorprese come l’argentino Cordero de dios di Lucia Cedron (non a caso numero 4 nella lista di preferenza del pubblico) sono state presentate delle opere formalmente molto ambiziose, di difficile approccio, stilisticamente complesse, cerebrali, dall’atmosfera surreale come Tale 52 (Alexis Alexiou, Grecia) e Las Meninas (Ihor Podlochak, Dean Karr, Ucraina), o intensamente allegoriche come Mange, ceci est mon corps (Michelange Quay, Francia/Haiti).

Un’altra corrente è stata quella dei film che hanno optato per un linguaggio di tipo documentaristico. Se Waltz in Starlight (Shingo Wakagi, Giappone) riesce a fondere nella sua trama l’aspetto autobiografico e i personaggi reali componendo un’elegia sincera e commovente, sconcertante risulta invece il tentativo di comporre un diario intimo in Years when I was a child outside (John Torres, Filippine). L’introspezione esistenziale si  trasforma qui in una collezione di episodi senza alcuna coesione, molto più prossima a un filmino di famiglia non professionale che alle forme del cinema sperimentale.

Una menzione a parte merita il film cileno El cielo, la tierra y la lluvia (José Luis Torre Leiva), vincitore del premio Fipresci. Si tratta di uno studio lirico della solitudine in cui la natura gioca un ruolo preponderante: la fotografia è molto curata, la messa in scena di qualità pittorica, tuttavia la struttura della storia, pur nella sua linearità, resta poco definita; il ritmo è molto lento e ciò rende, ancora una volta, il film poco adatto per un pubblico più vasto al di fuori del circuito dei festival.

Go in peace Jamil (Danimarca), Wonderful town (Tailandia) e Flower in the pocket (Malesia): i vincitori

La giuria presieduta dal regista iraniano Jafar Panahi ha premiato Go with peace Jamil di Omar Shargawi, Wonderful Town di Aditya Assarat e Flower in the Pocket di Liew Seng Tat. All’interno di questo panorama generale questi tre film si situano in una zona di mezzo: sono originali senza essere formalmente rivoluzionari, hanno delle buone sceneggiature e possono attirare del pubblico in sala senza per questo fare concessioni al cinema commerciale.

Flower in the pocket è un film di una grande delicatezza costruito su piccoli dettagli finemente osservati nella vita quotidiana di due bambini, i fratelli Ma Li Ahh e Ma Li Ohm. Liew Seng Tat, giovane regista alle prese con il suo primo lungometraggio, ci racconta una storia semplice ma non banale. Il film testimonia la grande vitalità del cinema malese dove in questo momento fioriscono molte opere low budget, prodotte in digitale da un gruppo di giovani registi amici fra di loro e pronti a cooperare, di volta in volta, nei progetti dei loro colleghi: il ruolo del padre è qui affidato al cameraman e regista James Lee. Flower in the pocket ci rende partecipi delle giornate di due bambini lasciati a se stessi dal padre, che dopo la morte della moglie si è rifugiato nel lavoro della sua bottega di manichini e sembra aver rinunciato al suo ruolo di genitore. Li vediamo svegliarsi e vestirsi di corsa per andare a scuola, li seguiamo in classe e poi nel lungo tragitto di ritorno a casa punteggiato da incontri con altri bimbi, da piccole avventure, da giochi per strada, nei campi o lungo dei fiumiciattoli. Il ritrovamento casuale di un cucciolo da parte dei bimbi costituisce il punto di volta della storia. “Happy”, il nuovo amico a quattro zampe, provoca una serie di piccoli disastri in seguito ai quali deve essere abbandonato. Il dolore della perdita rende i bimbi malati ed obbliga finalmente il padre ad assumersi le sue responsabilità. Flower in the pocket non è solo un film sull’infanzia ma anche sul lutto, sulla perdita di una persona cara e sulla maniera di affrontare questo dolore: non a caso il film si apre con una sequenza in cui il piccolo Ma Li Ohm prepara la sua cartella per andare a scuola mettendoci dentro una grande statua in porcellana della Madonna. Senza ostentazione il film testimonia la complessa realtà culturale e linguistica dell’isola della Malesia e, attraverso una messa in scena precisa e sensibile, ci descrive le diverse realtà sociali che la caratterizzano. L’universo umile e desolato dei due bimbi da un lato e quello piccolo borghese, ben più agiato, ordinato e caloroso della loro amica musulmana Ayu, sono mostrati con una maestria visuale che provoca emozione. Il film è attraversato da un costante sense of humour in cui, però, gli aspetti comici sono sempre tinti di amarezza come, per esempio, nella scena in cui il padre, uomo solitario e refrattario ad ogni tentativo di conoscere una nuova donna, attraversa tutto il mercato abbracciato ad un manichino femminile con le gambe aperte. La scena finale del film è sorprendente, tenera e comica allo stesso tempo: dopo aver imparato a “nuotare” muovendo le braccia ed i piedi sul suolo imbrattato di gesso della sua bottega, vediamo il padre insegnare a sua volta questa tecnica originale ai due bimbi sul prato di un parco di giochi. Flower in the pocket  non é forse un capolavoro ma è senza dubbio un’opera fresca, onesta e di grande sensibilità.

 

Go with peace Jamil è un’opera prima per Omar Shargawi, di formazione fotografo.  Ambientato nella società araba in Danimarca, il film riflette le
origini del regista nato da una madre danese e da un padre libanese. Go with peace Jamil è un film forte, violento, costruito intorno a un universo maschile, dominato visualmente dalla presenza dei corpi, dalla tessitura della pelle. Il mondo ritratto nel film è retto da un proprio codice morale e governato dal rancore atavico fra Sciiti e Sunniti: un mondo dove vige, inesorabile, la legge del taglione, dove la vendetta è sinonimo di onore. L’uso quasi costante dei primi e dei primissimi piani fin dall’inizio del film non è un mero esercizio di stile, ma una scelta che sottolinea ed esprime l’essenza stessa della storia che ci viene raccontata. Il ritmo è incalzante, il montaggio è rapido e preciso, sostenuto nella messa in scena da un ottimo cast di attori-personaggi presi in un gioco mortale di fughe e persecuzioni. Go with peace Jamil porta un’impronta visuale inconfondibile; forse è, fra quelli premiati, il film più originale per quanto riguarda il suo linguaggio cinematografico. La vicenda si svolge in Danimarca ma il paese è appena riconoscibile: il film crea un suo proprio spazio fisico, un mondo a parte come sospeso e staccato dalla realtà che lo circonda, un universo chiuso e senza scappatoie. I personaggi entrano ed escono da macchine, si muovono in un ghetto fatto di cortili, di interni di case, di locali notturni, di magazzini, di ristoranti. Non si tratta di uno studio della comunità araba nel suo insieme, ma di un determinato milieu: quello della notte, degli affari dubbi, dei clan rivali. Jamil, il protagonista, è un eroe tragico preso fra il dovere della vendetta e il desiderio di salvarsi e di salvare sua moglie e suo figlio piccolo. Jamil è intrappolato fra le generazioni, “figlio” e “padre” al contempo, preso in ostaggio dai suoi amici che si riveleranno essere, in fin dei conti, ben più pericolosi dei suoi nemici. La storia si sviluppa in una spirale di violenza e la speranza di una catarsi finale si trasforma in una tragedia insensata e senza appello. Omar Shargavi vuole mostrarci, con questo film, le difficoltà create all’interno della comunità araba dal peso di odi settari e di vecchi conti aperti che perseguitano come una maledizione i suoi membri anche in luoghi e paesi lontani. Il messaggio del regista è un messaggio di pace. La religione non ha nulla a che vedere con tutto cio ed è per questo che il film si chiude sulle parole del Corano che condannano chiunque osi privare della vita un altro essere umano.

Wonderful Town è il primo lungometraggio del thailandese Aditya Assarat. Il film è stato girato a Takua Pa, una cittadina costiera nel sud del paese colpita tre anni fa dallo tsunami. Già premiato al Festival di Pusan in Corea, Wonderful Town ha ottenuto meritatamente l’attenzione della giuria. Puntando su un linguaggio scarno ed essenziale, su una fotografia molto curata, su un ritmo meditativo e su un dialogo rarefatto, Aditya Assarat realizza un film denso e complesso. Nel suo approccio al post-Tsunami il regista rifugge ogni atteggiamento retorico; non intende guidare a forza il nostro sguardo, né vuole puntare il dito in maniera dimostrativa sul trauma di cui, nonostante i segni esteriori di ripresa, soffre ancora tutta questa regione, ma lascia affiorare nelle immagini sensibili e rispettose tutta l’ineffabilità della tragedia subita. Le scene in cui il protagonista osserva sulla spiaggia deserta la distesa del mare sono già sufficientemente eloquenti. La cinepresa si sofferma a lungo sul terrazzo del piccolo hotel gestito dalla protagonista, Na, giovane donna delicata e taciturna. Le macchie di umidità sui muri e sul pavimento, la biancheria stesa in un angolo: quest’inquadratura esprime tutta l’atmosfera di desolazione e di abbandono che impregna il luogo ma al tempo stesso simboleggia anche la volontà di continuare, nonostante tutto. Il terrazzo è anche il luogo d’incontro fra Na e Ton, un giovane architetto venuto da Bangkok per lavorare alla ricostruzione di un hotel sulla spiaggia. Ton decide di alloggiare nell’albergo di Na, nonostante sia molto modesto e lontano dalla costa. Fra i due sorge un idillio. Timido e cortese in un primo tempo, il loro rapporto sembra svilupparsi in seguito in un sentimento più forte e consistente. Questa vicenda occupa la prima parte del film: ma l’impressione di assistere a una bella storia d’amore capace di redimere dalla loro solitudine i due protagnisti si rivela fallace. I segni premonitori di una violenza repressa nella società locale si fanno sempre più minacciosi. La felicità altrui sembra essere intollerabile; ai primi pettegolezzi si aggiunge la persecuzione della coppia da parte di una banda di giovani in motorino capeggiati dal fratello di NA, un piccolo criminale sbandato e marginale. Il passato, rapidamente ricoperto dai lavori di ricostruzione è pur sempre presente: sorge e traspira dagli edifici ancora distrutti ma emana ancora di più dai comportamenti degli abitanti del luogo. Anche il protagonista nasconde una realtà a doppio fondo, un passato oscuro che sembra attirarlo nuovamente. Verso la fine del film lo vediamo prendere la decisione di abbandonare Na per ritornare dalla sua compagna di un tempo. Tutta la forza della sceneggiatura risiede nel suo finale, assolutamente inatteso. La storia si chiude con un atto di violenza: una sorta di omicidio rituale che sembra volere scongiurare l’irrompere nella realtà del luogo di ogni elemento estraneo.

Ton, catturato e picchiato dal fratello di Na e dalla sua banda viene gettato inanime nelle acque del fiume. Wonderful Town rifiuta l’happy end e ci lascia il tempo di riflettere.

 

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