“Era stato un brutto viaggio… selvaggio e veloce in certi momenti, lento e sporco in altri, ma alla fine un disastro. Sulla strada di ritorno verso San Francisco cercai di comporre un epitaffio adeguato. Volevo qualcosa di originale, ma non c’era verso di sfuggire al commento di Kurtz, dal cuore della tenebra “L’orrore! L’orrore! Sterminate i bruti!” Mi pareva appropriato anche se non completamente giusto… ma dopo aver ricevuto un lampo di realtà così concentrato, non mi importava molto della giustizia”. (Hunter S. Thompson, da Hell’s Angels, Shake Edizioni Underground, Roma 1998)

L’esordio da documentarista di Claudio Lazzaro, Camicie Verdi – Bruciare il tricolore, uno spaccato del profondo ventre del popolo leghista, doveva essere il primo capitolo di una trilogia sulle nuove destre in Italia destinata a rimanere incompiuta. Dopo aver esplorato i movimenti neofascisti con Nazirock, l’ultimo episodio avrebbe dovuto riguardare Sua Emittenza in persona e il suo partito-azienda ma, come ha dichiarato lo stesso Lazzaro: “autorevoli consulenti  mi hanno spiegato che la potenza di fuoco dei suoi studi legali, se facessi il film che ho in testa di fare, mi raderebbe al suolo e mi spedirebbe a vivere nei cartoni.” (da Ho il cuore Nero, a cura di M. Capello, nel cofanetto Dvd di Nazirock,  Feltrinelli Real Cinema, Roma 2008)
Non è un caso che le prime immagini di Nazirock ci mostrino proprio lui, un Silvio Berlusconi raggiante sul palco di Piazza San Giovanni a Roma in un ritrovato patto d’acciaio accanto a esponenti neofascisti come Alessandra Mussolini e Luca Romagnoli. L’occasione è quella dell’imponente manifestazione del dicembre 2006 in cui, proprio in virtù dello spirito-guida del Cavaliere, le diverse e litigiose anime della destra si ricompattano con l’obiettivo di sfiancare il già debilitato governo Prodi.
C’è anche lo spezzone di Forza Nuova a quella manifestazione, tra i suoi militanti vediamo giovani bonehead (skinhead nazionalisti e razzisti per distinguerli dagli skinhead apolitici e dai redskins di sinistra) magari alla loro prima esperienza in corteo, sul volto l’aria da duri che nasconde il disorientamento per una dimensione pubblica a cui non sono abituati se si esclude quella del tifo organizzato. Sfoggiano il consueto armamentario di braccia tese, tatuaggi e croci runiche, mentre uno di loro, visibilmente impacciato, cerca di dare nerbo alla truppa scandendo al megafono alcuni slogan che si è appuntato su un block notes.

L’obiettivo dichiarato di Nazirock appare quello di segnalare il vulnus creato dagli effetti di 20 anni di brodo cultural-politico berlusconiano sulla democrazia in Italia.
La tesi proposta sembra essere la seguente: giovani proletari privi di adeguati strumenti culturali vengono abilmente strumentalizzati e istigati all’odio da un manipolo di leader senza scrupoli: ex latitanti dell’eversione nera, ex picchiatori fascisti, indagati per strage e attentati, negazionisti e fanatici razzisti. A sua volta Berlusconi ha bisogno del sostegno della destra estrema e xenofoba per poter consolidare la propria coalizione elettorale. Ne consegue che un filo stretto lega il giovane skin che nega l’olocausto con il capo della maggiore formazione politica italiana, oggi Pdl, partito che si definisce moderato e che si avvia in questi giorni a tornare per la terza volta alla guida del paese. Non soddisfatto di aver ottenuto il pieno di consensi intorno a un partito-virtuale grazie a uno schiacciante monopolio mediatico, incarnando una concezione plebiscitaria e aziendalistica della politica, Berlusconi non si farebbe insomma scrupolo di legittimare il neofascismo così come era già avvenuto nei confronti del secessionismo xenofobo di matrice leghista, sdoganando una cultura politica che era rimasta fino a quel momento sepolta nella cloaca della nostra recente storia democratica.

Dopo averceli mostrati alle manifestazioni di piazza, ordinatamente incordonati dietro i loro emblemi, nella seconda parte di Nazirock veniamo introdotti direttamente nel “campo d’azione” tenutosi a Marta (Vt) nell’autunno 2006, in una sorta di festa-raduno giovanile organizzato da Forza Nuova in cui per diversi giorni si sono alternati a dibattiti e incontri con rappresentanti dell’estrema destra europea, momenti ludici e concerti di rock “non conforme”, con tanto di merchandising a tema “nazional-rivoluzionario”: spillette, t-shirt, libri e cd.
Nel corso delle interviste raccolte da Lazzaro i giovani neofascisti espongono il loro pensiero su temi sensibili: la violenza come strumento politico, la questione dell’immigrazione, l’odio per i “compagni”, l’antisemitismo e la messa in discussione dell’olocausto. Alcuni di loro parlano soltanto per sentito dire: completamente digiuni di nozioni storiche rivelano competenze culturali quanto mai approssimative e una totale inadeguatezza di pensiero critico. Altri, i più preparati, hanno mandato a memoria i testi di riferimento del movimento revisionista internazionale e sciorinano cifre e dati per confutare quel che a dir loro sarebbe la più grande menzogna del secolo appena trascorso: lo sterminio sistematico di milioni di ebrei nei lager nazifascisti. Lazzaro porta avanti il contraddittorio solo fino a un certo punto. Preferisce lasciare modo a giovani militanti e leader consumati di esprimere opinioni e alle immagini di parlare da sole, intervenendo solo in fase di montaggio con misurate voice over,  e delegando al materiale di repertorio – spezzoni di tg sullo stragismo nero degli anni ’70 e filmati dei campi di concentramento – il compito di confutare le  affermazioni più demagogiche e clamorosamente false.

Ci avviciniamo così al punto del lavoro di Claudio Lazzaro che più mi ha incuriosito: la metodologia di avvicinamento all’oggetto dell’indagine. Conoscendo bene l’avversione dell’estrema destra nei confronti di giornalisti e operatori dei media in genere – classificati di volta in volta come comunisti, borghesi o servi del “complotto giudaico-massonico” – mi sono posto la questione di come il regista e la sua troupe fossero riusciti nell’intento di guadagnare la fiducia dei giovani simpatizzanti neofascisti. Alla fine della proiezione stampa del film giro la domanda allo stesso Lazzaro, il quale chiarisce subito che, pur non avendo incontrato sostanziali ostacoli in fase di riprese, un radicale mutamento di atteggiamento si è verificato alla vigilia della sua uscita pubblica ufficiale nelle sale. Diversi forum di estrema destra su internet iniziano a denunciare la presunta disonestà dell’operazione Nazirock e gli stessi membri dei gruppi musicali coinvolti prendono le distanze dalla rappresentazione che viene fatta di loro nel documentario, sostenendo che un montaggio capzioso avrebbe stravolto il senso delle loro affermazioni. In sostanza Lazzaro si sarebbe approfittato della buona fede dei militanti forzanuovisti, allo scopo di carpirne confidenze e ottenerne ammissioni che poi avrebbe abilmente fatto in modo che si ritorcessero loro contro.

Ecco che, per libera associazione, mi viene in mente Hunter Thompson, l’eccentrico giornalista psichedelico, quello del romanzo cult Paura e disgusto a Las Vegas, per intenderci. Cosa c’entra, direte voi? Mi spiego.
Facciamo un salto indietro nel tempo. E&rsquo
; il 1966 e sulle strade della California imperversano gli Hell’s Angels, motoclicisti fuorilegge di pessima fama, abituati a scatenare ondate di panico nelle cittadine che avevano la sventura ospitarne i raduni e le reazioni isteriche – ma anche la curiosità morbosa – dei media americani. Atti di teppismo, gigantesche risse, abuso di alcol e droghe, aggressioni sessuali e a sfondo razzista, offese al comune senso del pudore, le accuse più ricorrenti.

 

Thompson decide di comprare una moto e di viaggiare per qualche tempo assieme  ai membri dell’organizzazione. Il risultato è una sorta di diario, brillante esempio di quello che lui stesso ha definito “gonzo journalism”, forma narrativa a cavallo tra cronaca e finzione. Ne esce un ritratto a chiaroscuri in cui, al fascino per lo spirito on the road, avventuroso e ribelle incarnato dai motociclisti, fa da contrappeso la feroce ironia nel descriverne il precario sistema di valori e la grettezza dei comportamenti e un resoconto impietoso della loro condizione di balordi sottoproletari. Gli Hell’s Angels non escono poi male dalla prosa tagliente di Thompson, niente a che vedere in ogni caso con gli stigmi e con il facile moralismo dispensati dai mezzi d’informazione. Ciò nonostante, poco dopo la pubblicazione del romanzo, lo scrittore verrà pestato di brutto da un gruppo di angels incazzati che lo riterranno responsabile di essersi approfittato di loro e ancora per molti anni a seguire sconterà con lettere d’insulti e minacce di morte l’imprudenza di aver tradito la fiducia della banda. Convinto di avere mantenuto sempre un comportamento leale verso i suoi momentanei compagni d’avventure, Thompson non si spiegherà mai fino in fondo reazioni così ostili; di certo consapevole solo in parte dei pericoli a cui sarebbe andato incontro, aveva interpretato il suo lavoro come una sorta di personale viaggio iniziatico, probabilmente sottovalutando il peso che la sua ricostruzione letteraria avrebbe comunque svolto nella demitizzazione del fenomeno preso in esame.

 

Torniamo così un po’ rocambolescamente ai nazisti nostrani che, beninteso e purtroppo, hanno poco o nulla a che fare con gli anarcoidi e apolitici Hell’s Angels, se si esclude qualche provocatoria svastica ornamentale sui giubbotti e una certa propensione comune all'esercizio della violenza gratuita.
Passate di moda le minacce anonime, di gran lunga più efficace appare oggi l’arte cavillosa dell’ingiunzione legale. Così gli avvocati di Forza Nuova, dopo averne ravvisato presunti contenuti diffamatori, hanno diffidato chiunque dal proiettare Nazirock in pubblico. La minaccia di un’azione legale si è dimostrata finora discretamente efficace se è vero che, dopo l’anteprima stampa del 3 aprile 2008, è saltato gran parte del programma di uscita nelle sale già fissato da tempo. Bisogna riconoscere peraltro che, aldilà del rischio improbabile di una causa giudiziaria, molti gestori di sale hanno messo in conto, nel rinunciare alla proiezione, l’incognita ben più concreta e plausibile di un’azione violenta di stampo squadrista.
Di certo Claudio Lazzaro non demorde. Ex giornalista e inviato del "Corriere della Sera" in Kosovo e in Iraq, non è di quelli facilmente impressionabili. In seguito alle dimissioni dal quotidiano, ha deciso di investire la liquidazione per fondare una piccola società con la quale realizza i suoi documentari, la NOBU, che sta per No Budget, a mettere l’accento sulla scelta del basso-costo e sull’uso del digitale come pratica virtuosa di auto-produzione dal basso che garantisce maggiore autonomia espressiva e la possibilità di sfruttare nuovi canali di distribuzione. Anche se sarà difficile vederlo al cinema visti i tempi che corrono, Nazirock è uscito in home-video per la collana Real Cinema di Feltrinelli e si trova facilmente  in vendita in libreria e on line sul sito La Feltrinelli. Il fatto è che il documentario, per le questioni rilevanti che suscita, dovrebbe avere come naturale sbocco la dimensione della fruizione collettiva e del dibattito pubblico; un lavoro del genere andrebbe proiettato in scuole e comunità, socializzato, discusso, anche trasmesso in televisione, ma su questo sinceramente non nutriamo molte speranze.

Enumerati i meriti e sottolineata la gravità del processo di auto-censura che Nazirock sta subendo, non posso esentarmi in ultimo da una critica, circostanziata, di metodo. Il titolo del documentario di Lazzaro, oltre che suscitare una certa dose di ragionevole inquietudine, potrebbe ingenerare un equivoco. Ci si sarebbe potuti aspettare una moderna ricerca sul campo a carattere antropologico o etno-musicologico, avente come oggetto le radici e lo sviluppo della scena italiana affiliata al cosiddetto white power rock, il movimento musicale internazionale facente capo all’estrema destra nazionalista e razzista, nato tra i giovani delle periferie londinesi a cavallo tra i ’70 e gli ’80 sotto l’egida del gruppo skinhead degli Screwdriver e del suo fondatore Ian Stuart Donaldson, e ramificatosi prima in Europa e poi in tutti i continenti.
Avrebbe potuto trattarsi insomma di un sostegno audiovisivo a un filone di ricerca già in parte avviato, vedi il quasi omonimo saggio del compianto Valerio Marchi, sociologo militante delle controculture giovanili (Nazi-rock, Pop music e destra radicale, Castelvecchi, Roma 1997).

Se diamo per appurato che tra le caratteristiche del documentario antropologico  in quanto strumento euristico sia indispensabile la sospensione del giudizio sull’oggetto della propria ricerca, occultando l’istanza enunciativa dell’autore e riducendo al minimo l’intervento manipolatorio del mezzo tecnico, può apparire insolito, se non paradossale, che questo approccio lucido e distaccato allo studio della destra radicale (come pure della galassia ultrà, in cui neonazismo e fede calcistica sono spesso fusi e confusi), sia stato spesso fatto proprio da militanti di fede politica dichiaratamente avversa, come è il caso dello stesso Marchi, skinhead antifascista e antirazzista, ultrà giallorosso, libraio, scrittore e sociologo cresciuto nel milieu sociale e politico di Via dei Volsci a Roma (sul "compagno Valerio" vi consiglio la lettura dello speciale a cura di Wu Ming pubblicato sul sito Carmilla poco dopo la morte improvvisa nel 2006 all’età di 51 anni).
Una scelta che, aldilà dei presupposti di scientificità del metodo, apparirebbe incomprensibile se non considerassimo il ruolo che categorie quali coscienza di classe, orgoglio d’appartenenza proletaria e lotta di popolo anti-sistema, svolgono nell’ispirare teorie e prassi in taluni militanti della sinistra antagonista che vedono nella solidarietà della strada contro il comune nemico borghese un collante ideale con i proletari di destra, un codice condiviso, pur nell’odio reciproco e nell’irriducibile alterità dei valori.  In accordo con questa modalità di lotta politica stradaiola e operista, il pischello che si autodefinisce nazista è considerato più come lumpen da recuperare e re-indirizzare che come nemico da abbattere (
mentre a destra questo atteggiamento si è incarnato in atteggiamenti terzaposizionisti demagogici e velleitari).

Il Nazirock di Claudio Lazzaro si colloca in una prospettiva radicalmente diversa, caratterizzandosi fin dalle prime battute come una più tradizionale, seppur coraggiosa e ben documentata, inchiesta giornalistica a tesi, coerentemente alla storia professionale del suo autore e al suo moderatismo politico.
Tuttavia, se come strumento d’indagine sociale sulla galassia giovanile neonazista in quanto tale il lavoro di Lazzaro può fornire validi spunti di riflessione, rispetto alla seconda parte del titolo, quella che suggerisce l’intenzione di una specifica esplorazione della scena musicale dei gruppi di estrema destra, il documentario manca in parte il bersaglio; un’intenzione di approfondimento che secondo me in fondo l’autore non ha mai avuto, per cui sarebbe bastato cambiare nome all’inchiesta per rendere pienamente l’attinenza alla già densa materia trattata: i rapporti ambigui con i partiti della destra moderata, il revisionismo storico, l’inquietante gemellaggio con i movimenti neofascisti europei e più in generale, come del resto già recita il sottotitolo, “il contagio fascista tra i giovani italiani”.
Non vi aspettate però un rockumentary politico come parrebbe indicare il titolo e l’immagine sulla locandina con il microfono in primo piano, perché in Nazirock la questione di una riflessione sul linguaggio musicale della destra estrema non è mai stata davvero presa in considerazione. Riflessione che avrebbe avuto il merito, se non altro, di rendere immediatamente intelligibili le matrici storico-culturali dei processi di socializzazione in atto in campo neofascista, attraverso una verifica e messa in discussione dell’adozione di canoni musicali e modelli di comportamento che attengono paradossalmente molto più alle controculture giovanili post-sessantotto che alla gioventù nazista ariana.
Contribuire a far emergere queste contraddizioni – una tra tutte: i primi skinhead derivavano direttamente dai rude boys, sottoproletari immigrati e figli di immigrati giamaicani nella Londra degli anni sessanta, fautori di generi musicali indubbiamente “neri” come ska, rocksteady, soul e R&B – piuttosto che segnalare il pericolo neonazista a chi nazista già non è, avrebbe potuto rivelarsi efficace nel far riflettere anche qualcuno di quei giovani, instillando una salutare dose di dubbio nelle loro granitiche sicurezze. 

Un aneddoto finale forse può chiarire la questione: nel corso del documentario assistiamo alle esibizioni di tre band musicali neofasciste: gli skinhead bolognesi Legittima offesa, i più tradizionalmente rockettari Hobbit e i Contea di genere folk celtico.  A un certo punto ascoltiamo quasi per intero un brano eseguito dagli Hobbit e il testo della canzone scorre nei sottotitoli:  “Frana, la curva frana – sulla polizia italiana – frana, la curva frana – su quei figli di puttana”; e ancora “Se violenza dev’esser che violenza sia – ma che sia contro la polizia“. Coloro che abbiano una qualche familiarità con la musica Oi! e punk-skinhead sanno bene che il brano in questione altro non è che una cover di un gruppo di sinistra, Frana la curva degli ormai disciolti Erode, oi-punk band di Como, con all’attivo brani dai titoli inequivocabili come Orgoglio proletario e Stalingrado. Solo in seguito il brano diventerà popolare nell’ambito delle tifoserie ultras e, per questo tramite, arriverà a diffondersi anche tra i giovani di destra. Il regista invece non lo sa o non se ne interessa: concentrato com’è nel presentare uno spaccato di una specifica galassia giovanile osservata però dalla metaposizione di giornalista che esercita un legittimo diritto di cronaca, sorvola sull’importanza che il ruolo di determinati codici musicali e dei rispettivi riferimenti simbolici gioca nel definire le identità e nel plasmare le individualità rispetto ai modelli d’appartenenza.

Sarà lo stesso Emanuele Tesauro, cantante degli Hobbit, comprensibilmente imbarazzato per essere stato colto in flagrante a suonare un pezzo di un gruppo di sinistra, a fargli notare in una successiva corrispondenza l’inopportunità, dal suo punto di vista, dell’inserimento della sequenza. Ma a quel punto, i rapporti di fiducia tra l’autore del documentario e i forzanuovisti, se mai si fossero instaurati, sono già irrimediabilmente compromessi. Un po’ come tra Mr. Thompson e i teppisti Angels: al ritorno da un viaggio “nel cuore della tenebra” si rischia sempre di non restarci indenni.   

Per approfondire:
http://www.nazirock.it/

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