Christopher Plummer, attore prolifico ed eclettico, che intere generazioni ricorderanno per sempre come il barone von Trapp di Tutti insieme appassionatamente, ha fatto la parte del leone alla quarta edizione del Festival di Roma, con ben due film di cui è protagonista. Due film diversissimi, il classicheggiante The Last Station di Michael Hoffman, in concorso, e il visionario Imaginarium of Doctor Parnassus di Terry Gilliam, tra gli eventi speciali. Plummer porta in entrambi la sua magistrale presenza scenica, il suo carisma, il suo umorismo, la sua intensità di attore che in cinquant’anni di carriera ha spaziato dal Sidney Lumet di Stage Struck, suo esordio nel 1958, a Star Trek VI, e ancora da L’esercito delle 12 scimmie (diretto da Terry Williams) fino ai più recenti Siriana, al fianco di George Clooney, e Insider; l’ultima sfida è quella del cinema d’animazione, in cui ha dato la voce al vecchietto protagonista dell’ultima opera targata Pixar, Up. A proposito del suo coinvolgimento da parte di Terry Gilliam per interpretare il vecchio e immortale Parnassus, Plummer ha dichiarato: “Ho pensato che probabilmente mi aveva chiamato perché sono rimasti pochi vecchi attori che sono in grado di parlare e io sono uno di loro. Divento sempre più fortunato ogni anno che passa, perché ne restano sempre meno e, fino a quando sono vivo e vegeto, posso presentarmi a fare il mio dovere. E così ho accettato“. Già queste sue parole bastano per farsi un’idea dello spirito che anima questo grande attore.

A far quindi da trait d’union tra le due opere l’ottuagenario attore canadese, ma non solo, perché le due storie, al di là delle abissali differenze, inneggiano entrambe alla libertà, intesa come autodeterminazione dell’essere umano, contro ogni forma di regole che distruggano la spontaneità, l’amore, l’immaginazione, contro tutti quegli “ismi”, che come la storia di oggi ci insegna, tendono a canalizzare (e mortificare) le emozioni più spontanee e vere per codificarle in precetti che ne snaturano il significato più profondo.

The last station racconta gli ultimi giorni del grande scrittore russo Lev Tolstoj, dell’amore viscerale ma anche del conflitto all’ultimo colpo, tra lui e la moglie appassionata e testarda, la contessa Sofia (interpretata dal premio Oscar Helen Mirren); lui, che in nome della religione che ha creato, ha deciso di rinunciare al suo titolo nobiliare, alle proprietà e persino ai diritti dei suoi romanzi lasciati al popolo russo anziché alla famiglia, a favore della povertà, del vegetarianismo e addirittura della castità (lui che non è mai stato casto!) e lei che farà di tutto perché ciò non avvenga in nome di quell‘eredità (e di un‘idea del mondo) che ritiene le appartenga di diritto. In questo conflitto senza mezzi termini si innestano il cinico e ultrarigido Chertkov (il grande Paul Giamatti) e Valentin, nuovo giovane segretario del romanziere russo, puro e idealista, che si innamorerà di Masha, un’anticonformista che ha aderito alle idee d’amore dello scrittore russo, entrando in conflitto con Chertkov. I due rappresentano, infatti, due interpretazioni contrapposte dell’opera del maestro: Masha ne coglie la ricchezza e la libertà del messaggio, Chertkov vorrebbe invece fare dell’inno all’amore una religione costrittiva e sterile.

Hoffman imbastisce un film dall’impianto classico, a metà tra il melodramma e il biopic, richiamandosi in più di un’occasione al cinema di James Ivory, tanto che la campagna russa in cui è ambientato il film sembra molto più vicina a quella inglese, sottolineando con musiche da melodramma (spesso fuori luogo) i momenti cruciali della storia; e soprattutto si affida a due cavalli di razza, Plummer e la Mirren, che nei loro continui battibecchi, diventano i padroni di una scena che sembra costruita apposta per dar sfoggio della loro magistrale bravura. Il risultato è un film che, pur molto apprezzato alla proieizone stampa, sembra una nave ben strutturata nella quale tuttavia si apre qualche falla; la sceneggiatura appare oscillante, e soprattutto nel finale sembra farsi piatta e prevedibile, i continui battibecchi tra Plummer e la Mirren alternano momenti felici ad altri più stanchi, il ritmo, ben sostenuto, va via via scemando. Quello che conta è che, nonostante l’apparente vittoria di Cherkov, rimane soprattutto l’idea che l’amore, libero e spontaneo, rappresenti l’unica forma vera di conoscenza, unico reale motivo per cui la vita vale la pena di essere vissuta.

Proprio l’amore salverà, alla fine del film Imaginarium del dottor Parnassus, Valentina, figlia del grande vecchio Parnassus, dalle grinfie del diavolo. Dalla Russia di inizio Novecento alla Londra dei nostri giorni Christopher Plummer veste i panni del vecchio e immortale Parnassus, che ha lo straordinario dono di riuscire a far sì che il pubblico del suo piccolo spettacolo itinerante chiamato l’Imaginarium dia libero sfogo alla sua immaginazione. E’ in eterno conflitto col diavolo, interpretato da Tom Waits, figura accattivante e scanzonata, che in cambio dell’immortalità strappa a Parnassus la promessa di avere sua figlia al compimento del sedicesimo anno di età. Ma il grande Plummer riuscirà attraverso una serie di scommesse col suo secolare nemico a far sì che la storia si concluda in modo diverso. In questo conflitto si inserisce una figura ambigua e affascinante, Tony (Heath Ledger, e, dopo la sua morte Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell), salvato dalla banda di Parnassus, che entrerà nella loro compagnia e contribuirà a complicare la faccenda.

Col suo inconfondibile stile visionario e fiabesco, Terry Gilliam si conferma un autore anticonformista, figlio, come lui ha dichiarato, degli anni sessanta, che rigetta regole e costrizioni in nome della libera espressione del sé. Il film, un omaggio al grande attore scomparso Heath Ledger, appare straripante sotto tutti i punti di vista: dalla sceneggiatura, alla fotografia, al colore, alla recitazione. Tutto è tanto, sopra le righe, e forse, in qualche momento, la materia sembra sfuggire di mano al regista. Rimane un film che è uno spettacolo da gustare, ricco di stimoli che avvolgono lo spettatore e lo lasciano stupefatto proprio come i numeri del dottor Parnassus.

Due grandi prove d’attore per Christopher Plummer, che lascia la sua impronta in due film che, come accennato, sono lontani anni luce tra loro, eppure si fanno entrambi portatori di un messaggio di grande libertà, sia essa espressa nelle forme dell’amore, nel senso più alto del termine, sia in quelle dell’immaginazione. A Tony che gli chiede perché, parlando di Parnassus, “se lui ha il potere di controllare le persone non governa il mondo“, Anton, il giovane della compagnia innamorato di Valentina, risponde “Non vuole comandare il mondo ma desidera che il mondo si regoli da solo”. Ecco questa questa risposta avrebbe potuto darla il Valentin di The Last Station a Chertkov, che, come il diavolo dell’Imaginarium, gioca sulle debolezze e le insicurezze del genere umano, per costruire e diffondere un dogma che annienta il messaggio rivoluzionario del maestro Tolstoj.

Per queste ragioni amare
e liberare la propria immaginazione appaiono come azioni quasi eroiche nel mondo di oggi, perché comportano sempre l’assunzione del rischio, senza il quale però non può esserci vera libertà. Una libertà che per noi può tradursi in liberazione da quelle schiavitù, come la mania di organizzare tutta la propria vita o chiudersi nell’apparente sicurezza del proprio pc o i-pod, che sembrano ormai scandire irrimediabilmente la nostra vita.

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