Corpo a cuore è il titolo di un melodramma della fine degli anni ’70, diretto da un cineasta dimenticato come Paul Vecchiali, il cui cinema è attraversato da un’autentica passione che avvolge e a volte consuma i corpi e i cuori dei personaggi come nel caso di questo film, la storia d’amore di una coppia apparentemente male assortita, una garagista sottaniere con la passione della musica classica e una farmacista di dieci anni più vecchia di lui, che si abbandonerà completamente al sentimento solo nel momento in cui scoprirà di essere affetta da un male incurabile, secondo il più classico espediente melodrammatico. Niente di più lontano da Qualcosa nell’aria, fuorviante titolo italiano genericamente evocativo del più secco e preciso Après Mai (Dopo maggio), un film con cui Olivier Assayas si cala nel nucleo vibrante del periodo storico immediatamente successivo ai tumulti e ai movimenti del ’68 che sconvolsero la Francia, l’Europa, il mondo, attraverso una ricostruzione in parte autobiografica, in alternanza tra lucidità analitica e scandaglio delle emozioni più intime e personali di un gruppo di adolescenti filmati nel momento in cui stanno acquisendo una consapevolezza che, prima che politica e sociale, è esistenziale in relazione alla propria identità ancora fluttuante e incerta.

Dunque parliamo di contesti, momenti di vita e situazioni diametralmente opposte rispetto al citato film di Vecchiali; eppure trovo eccezionalmente aderente e indicativo quel titolo, Corpo a cuore, rispetto al movimento sotterraneo che attraversa l’incipit e la prima parte di Après Mai,  che rimane attaccato alla pellicola per tutta la sua durata, restituendo il senso di aderenza non solo a quell’epoca servendosi di un’iconografia quasi oleografica – basta osservare il manifesto con l’immagine dei capelloni che si fanno le canne e suonano la chitarra su un prato fiorito – ma anche e soprattutto allo spirito dei personaggi, giovani corpi in divenire che vanno a sbattere con intensità, risolutezza e determinazione contro il loro cuore, per poi iniziare a leccarsi le ferite all’alba delle prime disillusioni.

Le scene iniziali, quelle della guerriglia con la polizia e delle incursioni notturne negli edifici da segnare con gli slogan e i volantini di protesta, ci mostrano questi ragazzi francesi dei primi anni ’70 correre a perdifiato dentro, più che verso, lo spazio ed il tempo, in modo travolgentemente fisico, se pur alimentato dalle passioni intellettuali e politiche.

E il senso del fiato, del respiro che non suona affannoso ma vitale e proteso verso l’aspirazione, un’ideale o, più carnalmente, un desiderio di cambiamento, di rivoluzione che passa tanto per le relazioni amicali e amorose, quanto per l’affermazione individuale, fa vibrare personaggi e situazioni di un’immediatezza, una freschezza e una spontaneità, senza cedere alla seduzione di una lettura nostalgica o, ancora più banalmente, consolatoria, ma ponendosi in dialettica tra tenerezza e distacco, ironia e qualche punta di struggente lirismo.

Gilles, il giovane liceale protagonista che trasfigura un ritratto dello stesso Assayas a quell’età, è immerso con tale candore e urgenza nel preciso momento della sua vita che diventa l’interlocutore a cui la mdp  chiede di far vedere cosa sentivano e cosa pensavo i giovani che animavano i movimenti studenteschi legati al partito comunista, non soffermandosi troppo su dibatti e assemblee, ma sul modo in cui i contenuti che venivano discussi e sviscerati avessero delle risonanze sulle azioni e i comportamenti,senza reticenze o forzature ideologiche, al contrario rivelando come potesse esserci uno scollamento tra la purezza dell’ideologia e il compromesso della realtà e come in fondo si cercasse di vivere la propria vita fondendo l’una nell’altra.

Il movimento di Gilles appare ondulatorio tra la dimensione collettiva, di gruppo, di comunità con cui sradicare la concezione borghese di famiglia (l’unico genitore che si vede è il padre di Gilles, descritto come abbastanza acritico e integrato al sistema anche culturale in un pungente scambio di battute su Simenon); quella di coppia, a sua volta scissa nelle relazioni con l’istintuale, sensuale Laure e la razionale, controllata Christine; e quella individuale per tramite del gesto artistico, nello specifico la pittura astratta, forse il linguaggio che in quel momento più si avvicinava ad esprimere le tensioni ideali e le pulsioni del corpo.

La specularità dei personaggi femminili, sottolineata da una precisa scelta estetica per cui Laure è sempre circondata da immagini di bucolica bellezza, avulse dal tempo della realtà e Christine si muove invece nei chiaroscuri delle battaglie politiche, è solo apparentemente funzionale ad una rappresentazione quasi didascalica della funzione occupata dalle donne all’interno dello specifico contesto storico, ed è permeata invece di un significato più profondo e più segreto: Laure, con il suo corpo senza età e il volto perennemente triste, quel muoversi e camminare in uno stato di perenne trance, incarna il tempo perduto, che esclude un prima e un dopo ma viene fermato per sempre in un istante, una delle possibilità che offre il linguaggio cinematografico; Christine è il tempo che deve ancora venire e che nel momento in cui viene vissuto si sta già muovendo in un’altra direzione, corpo impaziente che sceglie  la pericolosità del reale  alla retorica del maledettismo, presente a se stessa e a ciò che esiste e si trasforma, contro l’autodistruzione della tossicodipendenza, il fuoco jimmorrisiano  che brucia Laure, la quale evoca lo spettro di Nico, oscura icona del rock alternativo, nonché compagna e musa ispiratrice del Philippe Garrel più visionario e sperimentatore, quello de La cicatrice intérieure  e Les hautes solitudes.

Gillesragazzo e Oliviercineasta mostrano un autentico conflitto nei confronti di questa ambivalenza, se farsi trascinare nel falso movimento di un eterno ritorno o inseguire il cambiamento, variare il punto di vista e immaginarsi in un’altra forma intellettuale ed emotiva. Tutto ci suggerisce che entrambi in realtà propendano per la seconda scelta, perche quando Laure gli da l’addio (apparentemente) definitivo dicendo “Non guardarmi mentre me ne vado”, la soggettiva di Gilles con quel dolly che si alza allontanandosi dal soggetto amoroso è cinema che trasforma lo stato del ricordo nell’atto della memoria; perche Christine, incorniciata nella finestra della casetta borghese, a lavare i piatti e fare la spesa per gli uomini del movimento, si libera da quell’inquadratura e torna a cercare Gilles che nel frattempo è passato dall’isolamento e dalla furia ispiratrice della pittura astratta alla partecipazione e al caos ordinato del cinema, per interposta esperienza la scoperta dell’arte classica in Italia.

Perchè in fin dei conti solo il contaminarsi con l’altro da noi, che sia un ideale politico, un linguaggio artistico, un essere umano, offre l’opportunità di pensarsi anche  dopo di sè, come  suggerisce Après Mai, che potrebbe suonare ed apparire come Après Moi.

Ma come
quella corsa iniziale, senza fiato, sembrava non avere una destinazione precisa ma andare a sbattere contro il proprio cuore, anche il cinema di Olivier e il futuro di Gilles non sono dominati da un rigido determinismo dove esiste un’unica scelta, ma sono aperti ai detours dei percorsi esistenziali e cinematografici.

Così ci si può abbandonare al piacere del racconto autobiografico senza mirare al simbolo e all’astrazione, e ci si può rinchiudere in una sala cinematografica per fermare un istante del tempo perduto.

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