Nel 2005, il documentario Made in Italy fu quasi impietoso nel descrivere le pratiche prive di qualsiasi scrupolo attraverso cui molti imprenditori neopadani spostavano la produzione delle proprie fabrichette nella periferie magiare solo per sfruttare manodopera de-sindacalizzata e  fisco compiacente. Ora, quattro anni dopo, la tragedia dell’omicidio Reggiani, l’abbrutimento consumistico e tutte le storture del pacchetto sicurezza è un pò come se avessero irreparabilmente esasperato e contrapposto alle macerie del degrado morale italiano la corruzione e la povertà presenti anche in Romania.

Con Francesca, Bobby Paunescu è riuscito a elaborare in modo esemplare il fragilissimo equilibrio psicologico di chi rimane sospeso tra la consapevolezza di questi due deserti sociali aggrappandosi a certezze assolutamente inconsistenti.  Accolto con molto clamore nella sezione Orizzonti dell’ultimo Festival di Venezia, l’esordio dietro la macchina da presa del produttore de La morte del signor Lăzărescu, concentra nel passo sacrificale e quasi Dardenniano della protagonista, gli ultimi momenti di una maestra di asilo di Bucharest che decide di lasciare la madre e il proprio campagno per trasferirsi come badante in un oscuro paese dell’hinterland milanese. Francesca vive la minaccia incombente della perdizione che l’aspetta in Italia e l’opprimente disfacimento sociale del proprio paese in una solitudine sconfortante, armandosi di intenzioni pure e quasi trascendenti, come se la nobiltà delle proprie scelte potesse essere l’unica corazza salvifica per districarsi nel girone dantesco di bustarelle, tangenti e truffe che accerchiano tutta la sua esistenza. A tratti sembra quasi che la protagonista provi ad autoconvincersi incessantemente della necessità di partire e cerchi, quasi sottovoce, un fine sempre più immanente al senso del suo viaggio, come se la redenzione totale dell’immagine che hanno gli italiani dei rumeni potesse dipendere solo dal suo sacrificio.

Proprio per questo è quasi zelante nella ricerca di un’approvazione libertoria della sua scelta sia nei consigli richiesti alla madre, al padre, allo zio pervertito e persino al mediatore d’affari illegale che le organizza la partenza. In realtà quasi tutti la mettono in guardia dai rischi che può correre qualsiasi rumeno in Italia prospettandole una serie di luoghi comuni sul nostro conto quasi pittoreschi e fantapolitici. Nulla comunque in confronto al pericolo che possono provocare le situazioni imbarazzanti prodotte dal razzismo istituzionalizzato della Mussolini o del sindaco di Verona (la querela dell’esponente del Pdl al regista per gli epiteti che le sono rivolti in un dialogo tra le altre cose ha anche provocato l’uscita in ritardo del film nelle sale). Proprio perchè è quasi impossibile terminare questa recensione senza sconfinare nella retorica buonista dell’accoglienza a tutti i costi, risalta ancora di più lo sforzo di Paunescu nel mantenere anche nei momenti più drammatici un registro asettico e imparziale.

Come in una scultura filiforme di Calder, la regia ha sottratto dai movimenti del film tutta la massa solida delle angosce e la lacerazione dei personaggi comprimendoli nei terribili 15 minuti finali, in cui la violenza è solo immiginata, ed ha effetti stranianti solo nello sguardo intensissimo della bravissima Monica Barladeanu.

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