[*12] – Nel nuovo film di D’Alatri c’è qualcosa che ricorda Il postino e Troisi.  Invece che a Salina (o Procida, come si preferisce), siamo a Ventotene, fuochi d’artificio e festa di Santa Candida. Salvatore ha vent’anni, una madre grassa con un cuore grosso così, e due lavori: d’estate porta i turisti in barca a fare il giro dell’isola; d’inverno fa il muratore di fronte, nei cantieri di Formia. Ha l’aria spensierata e genuina, e più genuino di lui è il suo amico (anche più vicino a Troisi nella recitazione). Salvatore ha una vita che è un quadro e, nel quadro della sua vita, lui e il suo amico sono poveri ma belli, poveri ma felici, poveri ma giovani. Ma il fatto è che, improvvisamente, Salvatore non si ricorda più come si fa a camminare, perché ha le gambe pesanti e non le riesce a muovere.

Forse quello che racconta il film è la storia di una depressione (“un tempo veniva chiamata esaurimento nervoso”, spiega con cautela il medico al padre). O, forse, il nocciolo della questione è un trauma che Salvatore non riesce a superare. Ecco, Sul mare è una storia tragica raccontata in modo leggero. La leggerezza è, del resto, restituita dalla marca fantastica presente fin dal volo dall’impalcatura. E anche la lacrima al contrario dell’amico nero che vi rimane appeso è, allo stesso modo, dettaglio di leggerezza. Sicuramente si tratta di una storia d’amore. O almeno, dal punto di vista di Salvatore ciò che avviene è una storia d’amore. Ma dall’altro punto di vista c’è Martina, di Genova, aspirante giornalista, che dice che nella vita vuole fare solo le immersioni, ma non è vero perché poi vince l’Erasmus e parte; che dice che potrebbe vivere di nulla, ma poi non è vero. Lui la segue con dei discreti movimenti di pupilla, ma, evidentemente, non basta. E allora la nonna, senza denti, meravigliosa scena, gli dice un appena comprensibile: “t’ha lasciato e nun t ha ritt niente! Eh ma sti guaglione r’ ogg’ nu ten’n mang cchiù u ssang indi vvene”. E anche se poi si rivedono dopo tanto tempo e fanno l’amore semplice nella luce del giorno, il sangue nelle vene non lo si avrà lo stesso.

Per quanto la storia d’amore sia ai limiti dello stereotipo, va ad inserirsi in un contesto isolano di cui si è tentato di cogliere lo spirito. I tempi scanditi in “stagione” e “fuori stagione”, il rapporto con il mare, il padre che lavora nella compagnia dei traghetti e che mangia con la maglietta con su scritto “Caremar”. E quando si scopre che il film è tratto da “In bilico sul mare” di Anna Pavignano, compagna storica di Massimo Troisi, si mettono insieme i pezzi meglio. D’Alatri per il suo film voleva come protagonista un napoletano, un esordiente. Dario Castiglio, la cui origine non lascia tracce nel suo cognome, per fare l’attore aveva dovuto dimenticarlo, il napoletano. Quando parla, il suo accento è ora completamente romano. Ma per questo film no, è dovuto ritornare dove era partito o, forse, un po’ più in fondo, un po’ dopo, un po’ più dentro.  E così, cerca di parlare un napoletano verace, quello con la “sc” al posto della “s”, di molti “bbellebbuona”, di “manciare” al posto di “mangiare”, e di “mischiare” al posto di “attaccare” (anche se, in napoletano, “mischiare per attaccare” è talmente tanto considerato italiano regolare che in media non c’è la consapevolezza di un errore).  Napoletano verace che, infine, risulta più svelto all’amico. Tra le belle location naturali, si prende nota, invece, dell’ingresso dell’aliscafo in controluce.  Alla fine si spegne il motore della barca, e rimane il silenzio del rumore del mare a gestire l’essenza di un dolore, che non è niente di particolare.

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