Ci sono film con una forte impronta didascalica i quali tuttavia sanno ancora conservare un linguaggio poetico, forse perché guidati da un istinto che tiene insieme la razionalizzazione dello spazio e una tensione affettiva difficile da contenere.

È il caso del primo lungometraggio non documentaristico di Alessandro Rossetto, impegnato nella difficile opera di decodificare e restituire un clima, un humus che riguarda tutti noi italiani da molto vicino. Nel suo lavoro è del tutto evidente l’occhio del documentarista, lo sguardo analitico del naturalista (e sociologo) abile a cogliere lo schema di fondo, la meccanica della vita che scorre seguendo leggi interne all’ecosistema da cui è stata plasmata e che essa stessa ha contribuito a plasmare, in una concatenazione di causa e di effetto che, capovolgendosi e intersecandosi di continuo, sfumano l’una nell’altro sfilacciando la propria fibra sottile. Questa abilità del Rossetto naturalista-sociologo ci porta dentro una storia intesa come emblematica – qui è l’intento didascalico – planando dall’alto, da una proiezione ortogonale del territorio che scorre sotto i nostri occhi come un’astrazione materica, un tracciato composto da linee di forza, artefatti umani che sono anche generatori di tensione trasformativa in senso degenerante. Ma è quando siamo scesi al livello della vita coagulata, in corpi pensanti e agenti di desiderio o al contrario inerziali, sospinti da una pura coazione a ripetere, è quando siamo con i piedi per terra che la didascalia si fa tale. Prima, nello spazio aereo delle forme astratte, là dove le geometrie aberranti di cemento e lamiera creano costrizioni alla materia che un tempo fu vita e natura non toccate dal peccato originale di una umanità in via di decomposizione, entro quello spazio sufficientemente in alto troviamo il Rossetto poeta. I momenti in cui si ravvisa il vero elemento originale – o comunque quello dotato di una particolare intensità poetica e rappresentativa – sono l’avvio del film, alcuni suoi interludi e il finale, le sequenze del nostro volo ideale, dello sguardo sul quadro d’insieme, accompagnato da un coro di voci che cantano L’acqua zé morta.

«Guardati intorno

Le strade strade non hanno più ombra

Le piazze son luoghi di pena

Nel grano non ci sono più fiori

I boschi han perduto la pace

E l’acqua, e l’acqua è morta»

Questa, abbastanza fedelmente, una parte del testo della canzone in dialetto veneto.

Ha importanza riassumere qui la storia? Forse no. Ha più importanza sottolineare che Alessandro Rossetto calca un po’ la mano con l’intento di spiegarci questa nostra Italia di cui facciamo sempre più fatica a tenere insieme i pezzi ma al tempo stesso riesce a tenerci per mano fino alla fine. Probabilmente ha ficcato dentro una singola storia, intersezione di più storie come di solito accade nella vita, troppi temi, tutti i temi possibili oggi: la sete di denaro, la disperazione esistenziale, lo smarrimento del senso dello stare al mondo, l’interrogativo su cosa sia l’amore, la degenerazione del sentimento per puro interesse (persino nella forma dell’incesto), la perdita di una identità individuale e collettiva in nome di una presunta identità di appartenenza (il campanilismo nella versione moderna del leghismo) che genera solo patetici feticci e ridicole protesi subculturali (come la sagra paesana che si trasforma in un ballo di gruppo in stile cowboy western, con tanto di cappellone, cinturoni e stivali da vaccari americani) oltre a regalarci le distorsioni percettive di matrice razzista che riescono a proiettare la presenza di capri espiatori in “territorio strappato dallo straniero”, quando invece si dovrebbe puntare lo sguardo tra le mura di casa propria e vergognarsi di essere quel che si è diventati, massa di individui privi di dignità, forza morale, compassione (cum patere), empatia. E diciamolo una volta di più, senza un poco, nemmeno un poco di istruzione, lasciamo perdere la cultura.

A proposito di Piccola Patria vengono alla mente le parole di un filosofo del nostro Nord Est: «Nessuna società, nessuna comunità è concepibile se ogni individuo è concepito e si comporta come un perfetto individuo, perché un perfetto individuo, un perfetto individualismo contraddice l’idea comunitaria. Laddove manca una idea di bene comune all’interno di una dimensione etico-politica è impossibile pensare a una vita associata, a una vita comunitaria, a una vita politica».

 

 

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