di Stefano Macera

Col suo invidiabile patrimonio, l’Archivio Storico del Cinema Italiano costituisce un presidio culturale di notevole rilievo. Che però si trova a operare nel non facile contesto che emerge in questa intervista al suo Presidente, Graziano Marraffa. Nelle cui parole scorgiamo in ogni caso un ottimismo di fondo: avvicinare nuovi spettatori ai classici del cinema italiano, fruiti nella loro forma originaria (cioè, in pellicola), non è una missione impossibile. Al contrario, si tratta di un obiettivo pienamente praticabile, a condizione che vi sia un deciso cambio di mentalità da parte degli operatori del settore e degli Enti pubblici che si occupano di cultura.

Anzitutto, ci puoi spiegare cos’è l’Archivio Storico del Cinema Italiano?

Si tratta di un progetto realizzato partendo da una mia grande passione, che mi sono impegnato a trasformare in una professione. Già alla fine degli anni ’90, mi sono reso conto dell’assenza di un unico archivio del Cinema basato sulla conservazione delle memorie storiche originali (pellicole, manifesti, fotografie, scenografie, incisioni sonore ecc.), in quanto di archivi ve ne erano diversi ma non sempre in correlazione fra loro. Così ho iniziato a raccogliere sistematicamente i materiali; all’inizio ho puntato sulle cose più facilmente reperibili, ad esempio fotografie e riviste d’epoca o dischi in vinile di colonne sonore dei film, poi ho allargato lo spettro. Non disponevo di enormi risorse economiche per cui, gradualmente, ho portato avanti una politica di piccoli investimenti oculati. Dall’iniziale ricerca nei mercatini sono passato all’acquisto presso i professionisti del settore, scegliendo sempre in base alla qualità e alla rarità dei supporti.

Quali sono stati i presupposti culturali di questa ricerca?

La filosofia che anima la nostra iniziativa è in fondo semplice. Come, ad esempio, per meglio apprezzare i dipinti, occorre visionarli direttamente nei musei in cui sono conservati ed esposti, così le opere cinematografiche vanno visionate in pellicola originale, in una sala di pubblica proiezione e sul grande schermo. Le altre versioni esistenti e visibili sono spesso ibride, piene di rimaneggiamenti e tagli operati in funzione della fruizione televisiva o del mercato home video. Solo vedendo un film in pellicola 35mm se ne può apprezzare il carattere originale e corrispondente alle intenzioni artistiche dell’autore: lo conferma la colorimetria fotografica, che viene largamente alterata nelle altre versioni per via della non sempre corretta trascrizione e riproduzione digitale (per inciso, questo problema si pone anche in relazione ai film in bianco e nero, che presentano diverse scale di grigi).

Oltre a te, chi porta avanti l’attività?

Del coordinamento delle attività dell’Archivio mi occupo prevalentemente io, nella consapevolezza di quanto sia necessario cooperare costantemente con un gran numero di realtà esterne. In tal senso, va segnalato che, ai fini della buona conservazione delle pellicole, occorre che esse siano conservate in ambienti di adeguata temperatura e trattate con sostanze chimiche da persone di sicura competenza. Perciò abbiamo spesso beneficiato dell’apporto di studi professionali.

Dove sono collocati i vostri materiali?

Disponiamo, tra l’altro, di 1500 film in pellicola 35mm, 50000 manifesti di ogni formato e 750000 immagini fotografiche di set e backstage con i diritti di copyright, oltre a migliaia di fonti scritte ed elementi scenografici. Una raccolta cospicua, che è distribuita in vari luoghi della penisola. Per esempio, molte delle nostre pellicole sono conservate fuori Roma e, spesso, in altre regioni. Nella capitale è difficile trovare una sede disponibile che possa accogliere l’intero patrimonio, a meno di non possedere risorse economiche veramente ingenti. Purtroppo, in assenza di una sede unica e aperta al pubblico, il Ministero per i Beni, Attività Culturali e Turismo (Mibact) non può prenderci in considerazione per le previste erogazioni di sovvenzionamenti. Anche per questo stiamo pensando di trasferirci in altre zone d’Italia ove si possano dischiudere quelle possibilità di coordinamento con Enti e strutture, di natura sia pubblica che privata, che a Roma sembrano definitivamente precluse.

Dunque, proprio in quella storicamente è considerata una delle capitali del Cinema, non vi è il terreno favorevole a certe attività…

Roma vive un paradosso allucinante. Per lungo tempo, l’industria più forte della città è stata quella cinematografica. Qui venivano produttori di tutto il mondo, per realizzare film nei teatri di posa di Cinecittà e di Dinocittà (gli stabilimenti che il produttore Dino De Laurentiis creò nel 1962 a Castel Romano sulla Via Pontina, oggi trasformati nel parco tematico Cinecittà World). Per non dire di quanto il cinema abbia contribuito a far emergere Roma nell’immaginario planetario. In quest’ottica, basta segnalare due sole, celeberrime opere: Vacanze romane (1953) di William Wyler e di Luciano Emmer, il cui apporto a questo film viene sempre sottaciuto e, naturalmente, La dolce vita (1959) di Federico Fellini. Però, la capitale è anche dominata da una burocrazia che soffoca le spinte culturali e che non pare interessata a divulgare la memoria cinematografica. Qui, sembra che tutto sia destinato a morire lentamente. Certo, c’è il Centro Sperimentale di Cinematografia, storico centro di formazione professionale per nuove leve, che peraltro dispone di una imponente Cineteca. Però si tratta di una Fondazione che ha più di 80 anni di storia e che opera in un contesto in cui gli spazi per le nuove realtà risultano veramente circoscritti.

Ci puoi segnalare almeno un luogo della penisola in cui, secondo te, si produce seriamente cultura cinematografica?

In Italia, un esempio decisamente positivo è rappresentato da Bologna. Qui, la Cineteca, impegnata in molteplici iniziative, ha dato vita a un laboratorio di restauro che ha presto raggiunto una risonanza internazionale. E da più di 30 anni, nel periodo estivo, promuove la rassegna Il Cinema Ritrovato, volta a far conoscere film rari in versione restaurata a una larghissima e sempre più estesa fascia di pubblico, che raggiunge le 7000 presenze quotidiane in Piazza Maggiore. Senza dimenticare che la Cineteca è diventata anche società distributrice, considerato il suo impegno a far tornare nelle sale opere che ha restaurato in altissima definizione o documentari autoprodotti. Un esempio che dimostra con quale sensibilità, in quel territorio, si accolgono le proposte culturali seriamente elaborate. Il sostegno ad esse non viene solo dal pubblico, ossia dal Comune che è socio originario della Fondazione Cineteca di Bologna, ma anche da parte degli imprenditori, in una sinergia col privato che, attraverso manifestazioni bellissime e portate avanti in modo continuativo, favorisce anche la creazione di un nuovo pubblico.

Ecco, questo è un punto che ci interessa molto: come si possono raggiungere, in questa fase, nuovi spettatori?

Direi che, prima di tutto, occorre un’imprenditoria capace di associare a un atteggiamento dinamico una seria proposta culturale. A mio modesto avviso, non ha senso limitarsi a realizzare iniziative isolate, sia pur di pregio. Le varie serate con proiezioni vanno collocate all’interno di cicli ricorrenti e la materia cinematografica va sviscerata partendo volta per volta dall’analisi di una tematica specifica, di una figura artistica fondamentale per la settima arte ecc. Inoltre, le iniziative più ragguardevoli debbono essere sostenute anzitutto dagli Enti pubblici che si occupano di Cultura. In Italia, spesso, le idee interessanti non vengono comprese. Anzi, in questo paese si registra addirittura una tendenza a condannare all’oblio le personalità più notevoli: si pensi a due Autori di assoluto rilievo come Alessandro Blasetti e Pietro Germi. Ma addirittura per un pilastro unanimemente riconosciuto e pluripremiato con l’Oscar come Vittorio De Sica risulta insufficiente la bibliografia analitica. E per quanto riguarda Alberto Sordi, imprescindibile icona della cinematografia italiana, viene sì celebrato come attore ma all’interno di un discorso discutibile nel quale qualsiasi sua produzione registica è aprioristicamente bocciata. Diversi docenti universitari di Storia del Cinema invitano pubblicamente gli studenti a disertare in blocco la visione della sua filmografia realizzata in qualità di autore, senza nemmeno distinguere tra opere di valore come Finché c’è guerra c’è speranza (1974), che s’impone al nostro rispetto per gli aspetti tecnici come per l’inedita tematica affrontata, e film più trascurabili come Un tassinaro a New York (1987).

Dal nostro punto di vista, a danneggiare la cultura cinematografica non sono solo gli errori dei professori. Fuori dalle accademie, registriamo ad esempio un’autentica ossessione per il cinema di genere degli anni ’70, che a Roma è stato ed è promosso con un’infinità di rassegne…

Nella realtà attuale, la sala cinematografica ha perso la centralità che aveva nei decenni passati. Le immagini in movimento sono riprodotte e replicate in una miriade di sedi diverse. Così, il pubblico che utilizza abitualmente le piattaforme web o i supporti home video per la visione dei film e che, poniamo, si affeziona a un divo del poliziottesco anni ’70 o a un regista splatter di culto non è detto che poi faccia la fila per vederne i film proposti in pellicola originale in una sala cinematografica. Inflazionare certe proposte non produce mai nulla di buono, anche se…

Anche se?

Il cinema di genere, in quanto di origine popolare, è stato per troppo tempo trascurato sia in sede accademica che dalla critica giornalistica e, dunque, andava debitamente analizzato e riscoperto. Certo, in questa necessaria riconsiderazione ci sono stati degli eccessi di opposto segno, tanto che non sono mancate le polemiche tra la vecchia generazione di critici e quella nuova e maggiormente attiva su questo fronte, che talvolta promuove rivalutazioni in blocco. A mio modesto avviso, nella sacrosanta esplorazione di territori filmologici storicamente trascurati occorre muoversi con equilibrio.

A noi risulta che, nonostante il quadro difficile sin qui descritto, l’Archivio, nel corso degli anni, abbia dato vita a molte iniziative…

Sì e di alcune in particolare siamo stati orgogliosamente soddisfatti. Ad esempio, in anni recenti, abbiamo curato, in collaborazione con il Mibact, Cinecittà Luce e la Cineteca Nazionale la rassegna “Amarcord 35mm”, con la proiezione estiva di film in 35 millimetri negli spazi esterni della Direzione Generale per il Cinema, in prossimità della Basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Nonostante l’eccezionale presenza di pubblico registrata non si è andati oltre le due edizioni realizzate, perché poi l’ottica dell’iniziativa è cambiata e ha prevalso totalmente la proiezione di restauri digitali. Inoltre, finché è stata attiva la Sala Trevi-Alberto Sordi (lo spazio per le proiezioni ubicato in pieno centro storico, gestito dal Centro Sperimentale di Cinematografia dal 2003 e definitivamente chiuso a fine febbraio 2019) vi abbiamo realizzato retrospettive dedicate ai grandi protagonisti del Cinema Italiano, da Vittorio Gassman a Rosanna Schiaffino, cui si è reso un esclusivo omaggio a pochi mesi dalla scomparsa. Una rassegna che ha ottenuto un notevole riscontro mediatico è stata quella dedicata al Sordi politico: molti spettatori l’hanno ritenuta un’esperienza formativa.

Per chiudere, ci piacerebbe sapere qualcosa sui vostri progetti per il futuro…

Il nostro obiettivo di fondo rimane l’istituzione, sulla base del nostro Archivio, di uno specifico Centro di studi e documentazione sul Cinema Italiano. Per quanto riguarda i progetti intermedi, vorrei segnalare la nostra intenzione di realizzare film documentari su autori e protagonisti di rilievo ingiustamente trascurati. In generale, questo lavoro non è dettato dalla sola nostalgia, ma è teso a ribadire l’eterna modernità di realizzazione e di linguaggio del miglior Cinema Italiano alle nuove generazioni, riduttivamente affascinate dall’estetica digitale.

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