È finita. La giornata della memoria sta alle nostre spalle. Il 27 gennaio di 55 anni fa l’Armata Rossa entrava ad Auschwitz e liberava i prigionieri sopravvissuti allo sterminio nazista. Moltissime sono state le iniziative. Cercando in internet il numero di appuntamenti era impressionante, tanto da farmi sorgere il sospetto che ci fosse il tentativo di rincorrere la novità per evitare la monotonia. Un mio conoscente mi ha fatto notare che basterebbe leggere qualche pagina di Primo Levi per sapere tutto. Invece non è stato così. Potrei aggiungere che sarebbe bastato un film. Ma non ne sono sicuro. E poi quale? Non saprei. Forse l’opera monumentale di nove ore di Claude Lanzmann, intitolata Shoah. Unico programma delle tv di stato per quel giorno. Impossibile.

Fare memoria di un evento simile non è facile. Chiunque è portato a dimenticare l’orrore, spinto da un impulso di sopravvivenza. Chiunque si scosta di scatto da una fiamma. In un cineforum organizzato da me alcuni anni fa davamo Jona che visse nella balena di Roberto Faenza, storia ambientata nei campi di concentramento. A poco meno della metà del film un signore con la moglie vanno via dalla proiezione. Li fermo per chiedere come mai. Lui ha gli occhi lucidi. Mi dice: “È un bel film ma non ce la faccio…Io queste cose le ho vissute…”. Ricordare ha dunque a che fare con le emozioni, col sentire e non semplicemente con un sapere. Chi ha vissuto quegli avvenimenti può avere memoria. I superstiti però col tempo scompaiono. E le celebrazioni rischiano di finire in vuoti riti. Insomma ci si può ficcare in un paradosso: la molteplicità di iniziative invece di far tornare il passato tra noi lo lasciano scomparire dietro il sipario dell’evento. In proposito è stata rivelatrice una chiacchierata con un signore di circa sessant’anni. Vedendomi con gli occhiali e un paio di giornali sottobraccio avrà pensato che ne potevo sapere più di lui. Mi chiede: “Questi ebrei per suscitare tale odio devono pure loro aver fatto qualcosa…”. Mi guardava con gli occhi in attesa di una risposta affermativa. Cercava non solo una conferma ma anche complicità al suo pensiero. Prima sono rimasto smarrito. Poi ho provato a dare una risposta ma non quella che lui pensava.

Credo che fare memoria sia intrinsecamente legato ad una dimensione collettiva della vita. Che in qualche modo gli avvenimenti storici ci ri-guardano, ed hanno un peso simbolico dato delle immagini con cui li trasmettiamo. Non dovremmo però cadere nell’errore di pensarle come neutre anche se sono elaborate dalla parte dei “buoni”. C’è sempre una ideologia che le sostiene invischiata spesso col presente. Dunque per non rimanere bloccati in paradossi infruttuosi – la cancellazione del ricordo per una overdose di iniziative o per un sentire che non ci appartiene più – diventa strategico distinguere e associare. In altre parole: muoversi criticamente. Le rappresentazioni dell’Olocausto credo debbano essere adeguate alla materia. Senza per questo confinarle in qualcosa che è successo e mai potrà più accadere. Rischieremmo di cancellare le tragedie che ancora oggi capitano, anzi di non capire nemmeno bene il nostro presente.

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