di Armando Andria/ Teresa Saponangelo e Gea Martire dominano la scena de Le serve, lo spettacolo che Antonio Capuano porta in scena nell’edizione in corso del Napoli Teatro Festival, trascinando il pubblico in una farsa violenta e a tratti esilarante a partire dal testo di Genet. Guardandole, ci viene in mente che probabilmente la dedizione che un autore nutre verso il testo che mette in scena non sta tanto nel rispetto che mostra nel trattarlo, quanto nel modo in cui coglie l’ossessione originaria che lo percorre e la conduce dentro il suo mondo poetico.

Ma qual è l’ossessione che anima il celebre atto unico scritto da Jean Genet nel 1946?

Sappiamo che Le serve prende ispirazione da un efferato fatto di cronaca accaduto in Francia nel febbraio del 1933: Christine e Léa Papin, due sorelle di 28 e 21 anni a servizio presso una famiglia borghese, in seguito ad un rimprovero per un banale incidente massacrarono madre e figlia. L’interesse di Genet si focalizza su quello che potrebbe aver preceduto l’atto cruciale. Nel suo testo le due sorelle, Claire e Solange, quando la padrona è assente, si scambiano la sua parte fra loro, recitando a turno il ruolo della padrona e della serva. Madame è da loro amata, ammirata, e insieme invidiata e odiata. Attraverso il gioco delle parti, sfogano tutto il loro rancore fino a simulare l’atto di ucciderla. Quando poi provano per davvero ad avvelenarla falliscono nell’intento. Allora provano a eliminarsi a vicenda, finché Claire si dà la morte.

L’ossessione che guida la penna di Genet è la psicosi delle due serve: “il vivere la realtà come gioco e irrealtà, e il sentire come realtà la fantasia e il gioco” (nelle parole di Cesare Musatti). Questa psicosi, che ritaglia il mondo fino a farlo coincidere con una camera da letto, è ciò che impedisce loro di affrancarsi dalla condizione di asservimento, rimanendo per sempre oppresse.

Capuano conferma questa impostazione, e anzi vi aggiunge un’ulteriore stratificazione.

Nella sua rilettura, Claire e Solange sono due attrici che stanno provando un adattamento del testo di Genet. Provano al cospetto di un regista che non appare mai in scena, di lui si ode solo la voce: un tizio autoritario quanto ottuso, le tratta con malcelato disprezzo. L’attrice deputata a interpretare la signora è sparita, perciò Claire e Solange sono costrette a impersonare, a turno, anche il suo ruolo. In realtà l’hanno avvelenata a morte loro due, nel camerino, prima che iniziasse la prova, smaniose entrambe di essere, per una sera, Madame.

Capuano quindi in un certo modo nobilita le due donne, restituendo loro la dignità dell’atto estremo, dell’assassinio disperato ma liberatorio agito da Christine e Léa. Tuttavia relega quest’atto nel fuoriscena e impedisce che abbia un’influenza sul corso degli eventi e sulle vite delle due donne. Perché si tratta ancora una volta, diversamente che in Genet ma con la stessa valenza, della soppressione di una Madame fittizia, pretestuosa: il simulacro di un oppressore, non l’oppressore.

La cornice meta-testuale che caratterizza l’adattamento consente un processo di distanziamento per cui lo spettatore è contemporaneamente fuori e dentro lo spettacolo: i telefoni sono lattine di coca-cola, la scenografia è allestita mentre lo spettacolo è già in corso, le attrici di frequente abbandonano il testo per parlarsi confidenzialmente in napoletano. Senza però che questo “filtro” rischi di annacquare la natura sordida e violenta, sanguigna e materiale, del testo di Genet. Perché Claire e Solange non sono semplicemente due attrici qualsiasi che interpretano le serve. Sono attrici scalcagnate, di un teatro di second’ordine; sono volgari e sciatte, nessun’aura da rivendicare. Sembrano piuttosto delle serve che interpretano due attrici che interpretano le serve. Che recitino davanti ai nostri occhi è solo un ulteriore livello della loro psicosi.

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