Sono passati quarant’anni da quando sui Cahiers du cinema Jacques Rivette lanciò l’epocale scomunica al Kapò di Gillo Pontecorvo, seguito a ruota dai sodali Godard e Truffaut. Insieme alla rivalutazione di un certo cinema americano, allora svalutato da una critica contenutistica miope ed ideologizzata, al ridimensionamento del cinema letterario dei Carné, stabilivano un altro punto essenziale di quella che di lì a poco si sarebbe trasformata da teoria operativa a prassi critica: il linguaggio cinematografico, in quanto elemento organizzativo di un determinato discorso, deve seguirne anche formalmente i percorsi ideali desumibili dall’intreccio. Insomma si trattava di stabilire anche per un singolo movimento di macchina il suo precipitato morale. E purtroppo il film di Potecorvo fu il primo a passare al vaglio di questa spietato metodo critico.

Oggi, a ridosso della giornata della memoria, fissata per il 27 gennaio, molte cose sembrano cambiate, il panorama intellettuale è in subbuglio, fervono le discussioni politiche su un decreto promosso dal Ministro della giustizia Mastella per sancire come reati penali il vilipendio della memoria della Shoah. Ma nel frattempo nel cuore dell’occidente laico, razionalista e relativista, una sorta di paranoie dall’eloquio tranquillo, David Irving, di professione storico, viene ospitato dalle grande trasmissioni internazionali per esporre le proprie ardite tesi revisioniste, già costategli l’interdizione da molti paesi europei. In una di queste si è a lungo dibattuto sull’opportunità di far parlare o meno Irving; un accademico nostrano, Gozzini, storico del Partito comunista (ha curato l’ultimo volume della storia del partito, la monumentale opera iniziata dal grande Paolo Spriano), ha più volte ribadito l’inopportunità di perseguire penalmente simili congetture. Il mondo contemporaneo, sostiene, è oramai vaccinato, è il senso del suo discorso che si sottopone ai facili rapimenti dell’immaginazione, dunque è giusto che il dibattito si svolga ad armi pari, con il libero confronto delle rispettive proposte interpretative.

Le librerie sono ricolme di volumi, spesso anche in offerta a prezzo scontato, in cui si riflette sull’eredità storica dell’Olocausto. Al teatro Franco Parenti di Milano, fino all’11 febbraio, vanno in scena, nell’ambito della rassegna Corpo a corpo- interrogare sulla domanda, una serie di spettacoli tra cui la trasposizione di Kaddish per un bambino non nato, riduzione del testo del premio Nobel Imre Kertesz. In Francia è da mesi in testa alle classifiche lo scandaloso romanzo di Jonathan Littell, capace di raccontare con gli occhi di una SS le terribili vicende della guerra, in un fluviale delirio di ben 900 pagine. Negli Stati Uniti un grande vecchio della letteratura impegnata, Norman Mailer, autore de Il nudo e il morto e Le armate della notte, ha appena pubblicato un altrettanto corposo lavoro di fiction sull’adolescenza di Adolf Hitler.

Insomma a poche settimane dall’imprevedibile convegno organizzato dal presidente iraniano Ahmanidejad per “ripensare” la tragedia dei campi di concentramento in cui furono uccisi oltre 6 milioni di ebrei, l’occidente risponde con una impressionante produzione di testi, spettacoli, dibattiti, commemorazioni, pellegrinaggi, preghiere, lamenti funebri, perorazioni, convegni, interrogazioni parlamentari, fiction televisive, decreti legge, lettere, poesie, numeri speciali, saggi, racconti, poemi, e quant’altro ancora sia in grado di esprimere l’estro umano.

Ma basta tutto ciò all’apparentemente semplice scopo di far ripensare uno degli eventi più clamorosi e stordenti dell’intera vicenda umana, o non è anche (in quale misura è forse giusto stabilirlo da soli) questo l’ennesimo eco del villaggio globale, di una società improntata alla comunicazione anziché al messaggio, sempre più scevra di un effettivo retaggio storico a cui sottoporre l’interpretazione dei singoli fatti? Il culto intermittente della memoria, una volta l’anno, magari di sabato, non diventa soltanto un modo per scaricare responsabilità, alleggerire le coscienze, consentire ai predicatori di continuare a predicare la bontà della politica, della memoria, di Gandhi e di Che Guevara, di Kennedy e di Charlie Chaplin? Cosa diventa la memoria di un evento tanto fragoroso se isolata come fenomeno contingente e non come risultante di un più ampio e schietto movimento storico che essa stessa creò e determinò? Contingente appunto, cioè passeggera, una di quelle pastiglie che il medico prescrive e che bisogna ingoiare per forza, ma di cui appena deglutito un bel bicchier d’acqua nulla rimane.

Il cinema, creatura novecentesca per eccellenza dunque figlia dell’epoca in cui per forza e grandezza decostruttiva delle avanguardie si elevò il passeggero, il volatile scorrere delle sensazioni a supremo comandamento, sembra soffrire più delle altre forme artistiche questo incessante dovere della fuga in avanti. La sua capacità di congelare l’istantaneo per inglobarlo in un percorso sintetico in cui questo è trasvalutato, sembra smarrirsi di fronte all’imponenza di questo imponente sterminio. Alla proditoria condanna effettuata tanti anni fa i giovani turchi dei Cahiers, diventati autori acclamati, idoli rivoluzionari, maestri d’amore, non sono riusciti a dare il giusto e coerente seguito. Il loro silenzio è il silenzio di una generazione che sradicando gli alfabeti ha prodotto un azzeramento della loro stessa possibilità, dato che questa non può darsi che in uno spazio e in un tempo.

Scriveva nel 1945 Adorno “Solo ciò che non ha bisogno di essere compreso passa per comprensibile; solo ciò che in realtà, è estraniato, la parola segnata dal commercio, li colpisce come familiare. Nulla contribuisce altrettanto alla demoralizzazione degli intellettuali. Chi vuol sottrarsi a questa demoralizzazione, deve respingere ogni consiglio a tener conto della comunicazione, come un tradimento all’oggetto della comunicazione.”

Non c’è nulla di paradossale in queste parole di Adorno, come scriveva il primo traduttore Renato Solmi, in una cultura che eleva a comunicabile ogni segno/ evento, resta assordante il silenzio, a fronte di tante parole incapaci di trovare un ritmo ed un peso diverso dal linguaggio quotidiano. Quale strada debba trovare il cinema è difficile dirlo senza incappare in un idealismo decisamente fuori luogo, ma tra Spielberg e Polanski, tra due modi di osservare con i colori e i tempi del grande cinema di intrattenimento, deve pur esserci una strada attraverso la quale un altro cinema, quello europeo ad esempio o quanto ne resta, trovi una via, seppur complessa e tortuosa, tra le macerie di casa.

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4 commenti su “Meditazioni sulla Shoah

  1. IO STO LAVORANDO SULLA SHOAH SONO UN RAGAZZO DI 2 MEDIA ED IO E LA MIA PROFSTIAMO LAVORANDO SULLA SHOAH LA COSA MI PIACE MOLTO!!!! E IL VOSTRO TESTO E MOLTO INTERESANTE CIAO NIKOLA DEVIC LIETO DI AVERLO LETTO!!!!

  2. grazie per aver pubblicato i miei commenti a presto nikola devic e come sempre io ci tengo alla shoah

  3. complimenti il tuo testo e molto interessante anche se non lo letto pero credo che lo devi fare piu lungo diciamo di un altra pagina ti augurio ciao

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