Il soffio di un fato ineluttabile impregna ogni fotogramma di Just the wind di Bence Fliegauf, ricompensato alla Berlinale con il prestigioso Orso d’Argento. Partendo da un truce episodio di cronaca – una serie di massacri perpetrati in Ungheria fra il 2008 ed il 2009 contro la comunità Rom – il film segue, dalle prime luci dell’alba fino al cadere della notte, i membri di una famiglia Rom in quella che sarà la loro ultima giornata di vita.

Just the wind si apre con campo lungo in piena campagna: sul filo dell’orizzonte, dietro la vegetazione lussureggiante, compaiono i primi raggi del sole, ma già nella scena successiva lo spazio dell’inquadratura si serra chiudendosi su un primo piano vibrante ed ossessivo. Nella semioscurità s’intuisce un groviglio indistinto di corpi dormienti, lentamente una figura emerge da questa massa: è una donna, la madre della famiglia. Senza fare rumore Mari, questo è il suo nome, prepara una colazione fatta di qualche pezzetto di pane secco inzuppato nell’acqua e zuccherato per il padre invalido. Con gesti affrettati lascia per prima la sua modesta baracca ai margini di un bosco in periferia – sito di una piccola comunità Rom – per recarsi al lavoro. Fliegauf segue con la cinepresa portata a mano, attaccato quasi al dorso della donna il suo cammino verso la strada principale dove passerà a prenderla il camioncino dell’impresa di pulizie presso cui è impiegata.

Uno dopo l’altro tutti i membri della famiglia entrano in scena secondo l’ordine del loro risveglio. La seconda ad alzarsi è Anna, la figlia di Mari, una ragazza di sedici anni. Con una certa indolenza si prepara per andare a scuola, non senza avere prima tentato di risvegliare il fratello minore, Rio. Sul cammino verso la fermata Anna viene trattenuta da un gruppo di vicini che, dopo il barbaro omicidio della famiglia Lakatos, hanno costituito un gruppo di sorveglianza: bisogna tenere gli occhi aperti, localizzare gli sconosciuti, segnalare movimenti sospetti ed avere il cellulare sempre a portata di mano, le dicono. Anna aspetta, indolente e rassegnata, il passaggio della corriera.

La cinepresa torna per la terza volta nella casa della famiglia; finalmente anche Rio, si alza. Rio è un ragazzino sveglio, pieno d’energia e di voglia di vivere; oggi non andrà a scuola, cose ben più importanti e serie stanno accadendo nei dintorni e lui vuole osservarle, fiutarle, preparandosi a modo suo ad ogni evenienza.

Da questo momento in poi la trama segue, a turno, Mari, Anna e Rio nel corso della loro giornata, trascrivendo con cura una serie di segni premonitori che, in modo impercettibile, culmineranno nella tragedia finale. La vicenda é ambientata d’estate; il caldo pesante, soffocante aggiunge un’angoscia supplementare ad ogni gesto, esacerba le reazioni dei protagonisti che, istintivamente, sentono il peso di un’invisibile minaccia. Spossata dal lavoro Mari traspira senza sosta, Rio invece suda copiosamente a causa delle sue irrequiete e frenetiche scorribande all’aria aperta. La camera è vicinissima, quasi attaccata ai corpi, come le gocce del sudore che colano sui loro volti accaldati e sulla loro pelle madida; a questa distanza il nostro sguardo diventa quasi tattile.

Fliegauf mette spesso a dura prova le nostre facoltà percettive rendendoci complici di un laborioso inseguimento visivo dei protagonisti incalzati, pedinati e rincorsi dall’obiettivo come lo sono dai loro occulti aggressori. Mari, Anna e Rio, tutti e tre attori non professionisti provenienti dalla comunità Rom, riescono a trasmetterci il loro travaglio interiore attraverso una sorta di resistenza fisica muta e coriacea. Se lo sguardo di Rio è svelto, vivace, attento quello delle due donne è assente, rivolto verso una meta lontana, l’espressione del loro volto è chiusa, monotona, monocorde.

In un mondo in cui i dialoghi sembrano raramente andare oltre un breve scambio di botta e risposta Fliegauf affida la descrizione dei suoi personaggi e dei loro stati d’animo all’eloquenza dei gesti e delle situazioni. L’unico vero e proprio dialogo nel film è quello, agghiacciante, fra due poliziotti di cui il regista si serve per rivelarci l’ideologia che nutre questi omicidi collettivi: durante un sopralluogo nella baracca delle vittime un poliziotto locale spiega al suo collega, recentemente arrivato dalla capitale, che gli assassini hanno fatto male ad uccidere una famiglia che lavorava duro ed era ben integrata come quella dei Lakatos. Lui sì, avrebbe saputo indicare loro le persone giuste da far fuori: i fannulloni, i ladri, i drogati della comunità Rom. Gli assassini, invece, hanno sbagliato tutto, mandando alla società un segnale sbagliato.

La pellicola ci presenta un quadro complesso e realista dei rapporti sociali fra i due gruppi etnici evitando di cadere nella trappola del manicheismo. Ciononostante, la pressione che la comunità autoctona esercita sulla minoranza Rom, pesa considerevolmente sulla vita quotidiana dei suoi membri. Mari deve imporre se stessa ad ogni passo; risponde seccamente alle minacce di un piccolo boss mafioso al quale la sua famiglia deve dei soldi, resiste fermamente alle pesanti insinuazioni razziste del bidello della scuola dove fa le pulizie, scansa energica un gruppo di giovinastri che le sbarrano la strada. Caparbia, decisa, determinata, la donna vuole farcela ad ogni costo. Lavora duro sperando di avere presto i soldi necessari per raggiungere con i suoi il marito già emigrato in Canada. Anna, pur sembrando a prima vista apatica ed indolente, consulta su internet le notizie relative all’assassinio dei Lakatos e protegge se stessa dall’aggressività malcelata di chi le sta intorno rifugiandosi in brandelli di bellezza effimera. Disegna dei tatuaggi fantasiosi che poi rivende a delle compagne di scuola, intreccia una corona di fiori di campo per la testa di una bimba rom completamente lasciata a se stessa dai genitori alcolizzati. L’unico membro della famiglia che percepisce con chiarezza l’incombere del pericolo è Rio. Fliegauf sa tratteggiare con finezza l’oscillazione costante fra il desiderio naturale del ragazzino di girovagare, giocare, divertirsi e la sua angoscia.

Così vediamo Rio, apparentemente spensierato, rincorrere un pneumatico trovato per strada e poi  buttarsi allegramente nell’acqua del fiume con la sua banda. Ma queste attività non devono illuderci: Rio é costantemente all’erta. Il ragazzo ha costruito un luogo segreto, pieno di provviste dove rifugiarsi, in caso di pericolo, con la famiglia. Inquieto, percorre in lungo e in largo il bosco che circonda la sua casa in cerca di tracce ed indizi. Mentre cammina per un sentiero isolato nota una grossa macchina nera che avanza lentamente spiando i suoi movimenti, ancora più eloquente è il ritrovamento del corpo inanime del maiale della famiglia Lakatos, l’unico essere sopravvissuto alla strage, e provvede a seppellirlo. Dopo quest’ultimo episodio, conscio della sua impotenza, Rio si accanisce con rabbia contro un cespuglio facendolo a pezzi prima di tornare definitivamente a casa.

Nella sua messa in scena scabra e rigorosa Fliegauf sa evitare con cura accenti, falsamente melodrammatici ed eccessi espressivi: la tensione è costante ma tenuta sempre ad un livello subliminale. Notevole, in questo senso, è la contribuzione della banda sonora, che, pur restando relegata ad un pianissimo appena percepibile marca con il suo battito ritmico ed ossessivo ogni minuto del film.

Il carattere dramma
tico di Just the wind risulta dallo scontro di due dimensioni temporali che sembrano annullarsi a vicenda: il tempo dilatato dell’esistenza quotidiana fatto di abitudini, impegni, routine e quello della minaccia costante di un’entropia. Mentre i protagonisti ignari si proiettano in una dimensione infinita del tempo guardando all’avvenire, noi sappiamo che la traiettoria del loro giorno punta verso una fine ineluttabile.

Uno ad uno, i membri della famiglia rientrano a casa; una cena frugale, lo scambio di qualche parola. La famiglia si mette a letto, gli uni si accostano vicino agli altri, i corpi s’intuiscono allacciati nell’oscurità che ha ormai avvolto ogni cosa. “Dormi é solo il vento” dice Mari a Rio che sente uno strano sibilo  nella notte. Nel piano seguente il bagliore di una canna di fucile illumina con un guizzo sinistro le tenebre…

Just the wind  sarebbe dovuto concludersi con quest’inquadratura meravigliosamente sinistra lasciandoci immaginare il seguito. Peccato che il regista abbia deciso di aggiungere un’ultima sequenza all’obitorio, su cui, non vorremmo aggiungere di più.

Rileggendo infine Just the wind nel contesto politico attuale risulta evidente che in un momento in cui l’Ungheria sta predendo una svolta pericolosamente nazionalista un film che osa parlare apertamente del razzismo latente nella società del paese diventa anche un atto coraggiosamente democratico.

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