Cosa vuol dire adattare  per il grande schermo un capolavoro indiscusso della letteratura italiana, dopo che l’impresa è già stata compiuta con successo dal genio assoluto di Luchino Visconti, autore di un’opera, La terra trema, capace di segnare la modernità del nostro cinema e di diventare un modello di riferimento per le future nouvelle vague di tutto il mondo? Cosa significa per Pasquale Scimeca, regista dell’ultimo Malavoglia, sfidare un “classico”, misurarsi con la sua immortalità, per dirla con Carmelo Bene, accettare la sfida, comunque sempre difficile, della transcodificazione  da un sistema di segni ad un altro che si traduca in un linguaggio effettivamente “altro”, specifico, come l’immagine in movimento e il suono riprodotto, come quella “scrittura della realtà”, di cui parlava Pasolini, che è proprio il cinema? E nello specifico del film in questione perché adottare una trasposizione temporale che colloca le vicende della famiglia Toscano nell’oggi del nostro sud più profondo, come se la Storia non fosse mai esistita ed il tempo si fosse fermato in un eterno, miserabile presente?

Evidentemente, Scimeca coglie l’esemplarità della storia dei Malavoglia, il suo carattere universale nel racconto della condizione umana, l’epos tragico del destino dei più deboli, disegnando i confini di un discorso poetico fondato sul disorientamento e la disperata ricerca di senso dell’individuo contemporaneo, alle prese con un mondo perennemente ostile, ingiusto e vendicativo. Questa traslazione narrativa all’interno di uno spazio cinema sospeso e quasi astratto, seppure funzionalmente connotato, acquista però una puntuale valenza politica nella denuncia accorata e compassionevole di quel nucleo sociale ancora negletto, ghettizzato e sfruttato, “vinto”  dai più potenti, da chi non necessita del miracolo della “Provvidenza” per sbarcare, giorno dopo giorno, un imprevedibile lunario.

Il regista di Placido Rizzotto riflette, in particolare, sul rapporto tra la modernità dei nuovi linguaggi e l’antica naturalezza dei sentimenti contadini, sulla loro assoluta inconciliabilità, sulle frizioni nevrotiche e talvolta drammatiche tra culture non armonizzabili, tutt’oggi conflittuali, cristallizzate in un goffo ibridismo. Per sottolineare l’inadeguatezza, il costante essere fuori luogo e lo stare fuori tempo dei personaggi attuali di Aci Trezza, fedeli nei nomi, nella fisicità, nei comportamenti, nelle psicologie e negli orizzonti valoriali ai loro antenati verghiani, la musica, e più in generale tutto l’apparato sonoro, interviene a determinare un clima di tangibile alterità e disagio nei confronti dell’ambiente che li circonda, orchestrando un effetto straniante e insieme dissacrante, attraverso l’antifrasi tra la dimensione visiva e quella acustica del testo filmico. Dunque la modernità sintetica e alienante delle melodie elettroniche stride violentemente con l’umiltà degli ambienti e la ruvida, indigena, corporeità dei pescatori: significativa, al riguardo, la commistione pop, disturbante e stonata, tra il rap aggressivo delle canzoni di ‘Ntoni e i vecchi proverbi dialettali dispensati dal capofamiglia, che diventano poi, per puro paradosso, una sinfonia grottesca, squallida e deficiente, destinata a trionfare nel calderone infinito dell’immaginario musicale contemporaneo e a raddrizzare le sorti di un destino altrimenti segnato dalla sventura senza alcuna possibilità di riscatto. Il  grande valore espressivo della colonna sonora, curatissima anche nell’elaborazione dei rumori di fondo e d’ambiente, la sua onnipresenza, e il volume martellante delle sue tonalità, configurano il disegno estetico di un musical sui generis all’insegna dell’autorialità più umile ed anarchica, a volte distratta e spesso persino amatoriale in alcune soluzioni drammaturgiche, accompagnate da una recitazione a tratti a dir poco imbarazzante, ma che non stona nell’impianto complessivamente brechtiano, programmatico, provocatorio e infine naif di tutta l’opera.

Coraggioso e dignitoso, difficile e risolto solo a metà, ma meritevole nel restituire il senso tragico del nostro presente e delle sue contraddizioni.

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