Film reietto e rifiutato fin dalla fischiatissima proiezione all’ultimo Festival di Venezia  e dopo neanche un mese già sparito o quasi dalle sale di circuito.

Film fisico, da corpo a corpo,  madre!, un titolo che mette i brividi , di Darren Aronofsky, uno che ha il coraggio o, meglio, la necessità di osare e di proporre un’idea di cinema spudorata e forte pur calato nei codici e nei  meccanismi produttivi della Hollywood  più convenzionale, sfruttandone tutti i mezzi per destrutturare i sensi  e  i contenuti consolatori di cui quella cara e rassicurante industria si è fatta custode e promotrice.

Aronofsky ha sempre preferito prendere a schiaffi  o addirittura tirare cazzotti, e anche colpi bassi, attraverso l’occhio della sua mdp dietro al quale non si è mai nascosto ma semmai si è mischiato per osmosi tra sguardo e visione, diventando, cronenberghianemente, la continuazione meccanica del suo particolare e tormentato modo di percepire e restituire la realtà.

Un  corpo a corpo, dunque, come sicuramente lo era  Requiem for a dream, truculenta e ossessiva esplorazione dell’effetto delle sostanze stupefacenti all’interno di dinamiche relazionali già disturbate e alterate che , con effetti ed effettacci, facili simbolismi e scivolate melò ( tutto nel sublime segno di una consapevolezza e di un piacere, di una voluttà nel mettere in scena) , lasciava addosso il senso di pesantezza e oscurità nella quale si vedevano sprofondare i personaggi .

Anche in Requiem c’era una madre!, la memorabile Ellen Burstyn , soffocata dalla solitudine, e poi ingoiata nel buco nero della dipendenza dai quiz a premi in tv e dalle anfetamine. Ne interpretava il figlio il quanto mai angelico e demoniaco Jared Leto, tossicodipendente legato al doppio filo dell’Eros e della Morte con l’altrettanto tossica fidanzata, una Jennifer Connelly che cominciava a mostrare la bellezza matura e livida rispetto all’incantevole fanciulla danzate  che fu in  C’era una volta in America.

Quel finale assoluto, un’immagine da non rivelare,  e quasi insostenibile tra Burstyn  madre! e Leto  figlio! , con la sensazione di essere sempre sull’orlo di travalicare un confine, spaziale e fisiologico, attraversa tutto l’unico e claustrofobico luogo dentro il quale Jennifer Lawrence si muove: la Casa, sopravissuta a un incendio e da lei ricostruita quasi completamente, che appartiene al marito, un poeta , un tempo famoso, ora all’ossessiva ricerca dell’Ispirazione da coltivare  sull’altare dell’amore coniugale.

Interpretato da un mellifluo e ascetico Javier Bardem , al suo culto esclusivo la sposa Jennifer sembra aver dedicato la sua vita.

Ma non c’è nulla di romantico o di sublime nell’incipit, la casa in questione si presenta subito come inquietante, minacciosa, oscura, con quei muri in allestimento e i segni delle passate bruciature, per non parlare dei pavimenti e delle pareti che franano ed eruttano sangue. Non è credibile che due persone possano vivere, amarsi e costruire una famiglia all’interno di questo ambiente, e il modo in cui Aronofsky dissemina  le varie stanze della casa di elementi dissonanti e disturbanti e crea immediatamente, al primo impatto visivo,  una distorsione nello spettatore: da una parte si prova fastidio e disagio,  e dall’altra non si può fare a meno di vedere, come se si seguisse l’imperativo di una voce che sale dalle viscere e chiede:  Ancora!

Durante tutta la prima parte sembra di trovarsi di fronte a una soggettiva libera indiretta  del personaggio della Lawrence, in parte perché spesso la ripresa è in soggettiva dal suo punto di vista,  ma anche e soprattutto perché il mood, il sentimento di inadeguatezza che genera angoscia e smarrimento stampato sulla sua espressione contrita avvolge e pervade tutto ciò che entra nel suo raggio di percezione e lo rende precario e minaccioso. Quanto è scomodo guardare il simulacro della coppia attraverso gli occhi di Jennifer Lawrence in questo film, come lo era entrare nelle incestuose dinamiche madre-figlia  percepite dallo sguardo della schizoide Nina/Natalie Portman ne Il cigno nero , il più speculare e geometrico riferimento per madre! all’interno del cinema di Aronofsky; Solo che questa volta è  stata spazzato via qualsiasi residuo di lettura o interpretazione psicanalitica, non c’è più un testo , in quel caso Il lago dei cigni, e non ci sono neanche archetipi, se vogliamo dare retta  al titolo e a quella “m”adre dalla grafica  minuscola.

I personaggi , i luoghi, le situazioni si fanno e si disfanno attraverso una sorta di ritmo interno, di pulsazione cardiaca e di istinto di vita e di morte di cui la donna è portatrice e generatrice: C’è una rozzezza ideologica e simbolica in tale processo e anche una spudoratezza e un’audacia nel lasciarsi andare alle intuizioni e a far fluire l’inconscio,  l’anima naif e pop di Aronofsky,  capace di sostenere  e rendere plausibile tutto questo nella forma estetica/struttura del racconto ( inscindibili in lui l’una dall’altra), che appare, strano a dirsi, rigorosa e precisa  nel suo crescendo delirante e iperstratificato di immagini e suoni.

Ci sono i fantasmi di un cinema che non esiste più e che fa, beffardamente e amaramente, la sua comparsa nell’immagine svestita di glamour e nei lineamenti  induriti di Michelle Pfeffeifer: lei, eterea e classica bellezza capace anche di  fiammate di Eros nel cinema americano degli 80/90,  si fa sotto, volto contro volto, primo piano contro primo piano, all’espressione spaurita della giovane sposa e ne diventa lo specchio del tempo, le nemesi, la rappresentazione di ciò che sarebbe il matrimonio oltre il Culto e il Simbolo.

Michelle, Erinni distruttiva che annuncia la distruzione, che si porta dietro un marito morente e dei figli fratricidi, e scuote la terra sotto i piedi della coppia;  Fa sprofondare  il Poeta e la sua Musa, e ne annuncia la deflagrazione , il prezzo da pagare per un falso e apparente ideale di Bellezza e Purezza nel sangue e nel fuoco delle loro vanità e affanni: Il narcisismo mistico di Lui, la devozione da focolare domestico di Lei.

Due percorsi ciechi, che non portano luce tra le mura della casa sempre più angusta e minacciosa, invasa dagli invasati seguaci del Poeta sulla base di un componimento che non viene ne mostrato ne declamato, in quanto l’idolatria è isteria collettiva, contagio, infezione prolificante che  si riduce a cannibalismo ed empietà.

E la risposta, altrettanto feroce e primordiale, della Sposa-madre!, la difesa esasperata dell’ultima roccaforte della propria identità fragile e in frantumi, sfianca e non lascia lo spazio neanche per reagire all’ultima provocazione,alla desacralizzazione post moderna dell’ immagine Ex voto: Un cuore semplice cristallizzato sulle ceneri di un martirio che è solo inganno, proiezione, artificio.

ancora! ancora! ancora!

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