Non è complicato aggiornare con precisione l’opera visibile di questo cineasta, stupisce dunque quanto vanno scrivendo alcuni critici sui suoi film. Tralasciano considerazioni decisive in rapporto alla prolificazione infinita delle immagini contemporanee ma, ancor più grave, omettono di elencare alcuni lavori. Gli appassionati e gli amici dell’artista hanno letto con preoccupazione il catalogo delle opere da lui realizzate pubblicato su riviste internazionali. Vi erano errori intollerabili e assenze ingiustificabili, specie per quanto riguarda la parte segreta e non-finita della sua opera. Un grande ingegno quale il suo finisce per essere travisato prima ancora che il tempo riversi su di lui un velo d’ineluttabile opacità. Dello stesso mio parere sono Petrok Marangotti e Luisella Crispi, i cui interventi possono essere letti sul mensile Monstre.c. Insomma questioni rispetto alle quali Julia Corzar ha espresso parole definitive durante i Festival cinematografici di Borun e di Makrar, citando all’occorrenza il mio modesto contributo, non certo all’altezza della sua autorità. Non va inoltre sottaciuto il merito di Eva Scremaglie per la diffusione di tali idee nella barbarica Italia. Ho detto che l’opera di Luigi Vèder è facile da elencare, almeno quella visibile. Ricercando con scrupolo nelle cineteche di New York, Madrid e Parigi, ho potuto stabilire che comprende i seguenti video e film:

a) un video situazionista di 10 secondi intitolato “Non è mai troppo presto”, proiettato ininterrottamente per 24 ore presso i locali del Detour di via Urbana in Roma il 15 agosto del 2000;

b) un lungometraggio sulle condizioni di costrizione che permettono la visione delle immagini in movimento, intitolato “Le catene del desiderio”, distribuito in 10 copie nelle principali città della penisola italiana, nel 2001;

c) una monografia televisiva dedicata alla figura del filosofo Jean-Luc Nancy intitolata “Guardare come pensare”, trasmessa dalla rete pubblica francese alle tre del mattino del 25 dicembre 2003;

d) un mediometraggio intitolato “La distanza morale” che è un esplicito omaggio a Jacques Rivette e Serge Daney, mai distribuito, unica proiezione in casa del cineclub casalingo O Fantasma nel quartiere Appio Latino di Roma il 25 aprile 2005;

e) un intervento video-critico intitolato “Rotolini digitali invisibili: in ricordo dell’uomo di celluloide che fu”, durata cinque ore, direttamente diffuso in dvd;

f) un lungometraggio intitolato “Post-neorealismo, pubblico inganno dello spettatore medio”, film di due ore del 2009 mai proiettato, che ha tuttavia raccolto le denunce delle istituzioni italiane preposte alla produzione e diffusione di audiovisivi d’interesse nazionale e di alcuni soggetti privati in combutta con esse;

g) appunti video, ancora non raccolti insieme, e temporaneamente intitolati: “Immagini di immagini: alla ricerca della prima immagine”;

h) Una raccolta d’interviste video dedicata a ultranovantenni intitolata “Perdite e/o acquisti visivi”, rintracciabili in parti separate in Internet dall’aprile del 2009;

Questa è l’opera visibile Luigi Vèder in ordine cronologico, nulla di più e nulla di meno. Molto più difficile è dare conto della parte invisibile, senza dover scomodare facili ironie in proposito, da considerarsi di cattivo gusto, di fronte al modo d’operare sotterraneo del nostro autore che non ha eguali al tempo presente. Attività che consta essenzialmente nella realizzazione di Copia Conforme di Abbas Kiarostami, il grandissimo autore iraniano universalmente noto e premiato dai maggiori festival del mondo. Capisco che l’iniziativa artistica di Vèder possa esser giudicata assurda, se non una provocazione performativa e, in effetti, non siamo lontani dalle regioni dell’assurdo. Bisogna aggiungere, per evitare incomprensioni, che c’è qualcosa di più profondo e questa mia nota vuole dare testimonianza delle ulteriori implicazioni.

L’impresa non nasce dal nulla. Ha due modelli di riferimento. Il primo è Psycho di Gus Van Sant del 1998, remake shot-for-shot di Psycho di Alfred Hitchcock del 1960. Il secondo è Andy Warhol, in particolare i cinquecento rulli di Screen Test, film ritratti di personaggi ripresi con camera fissa per tre minuti su un fondo nero. L’obiettivo, come scrive l’artista americano, è quello di permettere che “la camera funzioni fino a che la pellicola finisce, così posso guardare le persone per come sono veramente”. Sappiamo per certo che Vèder non amasse più di tanto simili procedimenti. Da una parte sentiva puzza di necrofila rappresentazione del nulla, una mascherata suggestiva per le contaminazioni temporali o per gli accorgimenti tesi a evitare anacronismi inutili, senza però quella linfa vitale e spirituale che dà forza a un progetto. Dall’altra, intendo con Warhol, trovava una qualche ispirazione, in ragione del fluire libero e indefinito dei rulli, capace di cogliere una verità lì dove domina la finzione, quel trovarsi necessariamente di fronte ad un qualcosa da narrare, quasi una rivelazione a cui non sottrarsi, come direbbe Kiarostami. Cercando di evitare i pericoli insiti in questi due esempi Vèder ha intrapreso le riprese di Copia Conforme. “Il mio proposito – mi ha scritto un mese fa – non è di copiare e nemmeno di ripetere inquadratura per inquadratura, desidero altro. Mi arrovella l’idea di girare quelle immagini che coincidono immagine per immagine con quelle del film di Kiarsostami”. La sua mirabile ambizione – come chiamarla diversamente? – l’ha spinto immediatamente a cercare una totale identificazione con l’autore. È dunque partito per l’Iran e, giunto a Theheran, ha iniziato con una videocamera delle riprese. Sono però subito insorti dei problemi con le autorità locali che l’hanno fermato chiedendogli chi fosse. Ha confessato di essere Abbas Kiarostami, non gli hanno creduto, anche perché i suoi documenti indicavano Luigi Vèder, cittadino italiano. Dopo due giorni in prigione – in cella con lui c’era il regista Jafar Panahi – è stato rilasciato grazie all’intervento delle autorità italiane che hanno importanti interessi con il regime di Ahmadinejad, quindi è stato liberato con l’obbligo di tornare in patria. Prima di partire mi ha scritto una lettera, la riporto in sintesi:

Caro Marines,

è stata un’illusione quella di identificarmi totalmente in lui, al di là delle questioni “ambientali” che sono un ostacolo non piccolo, c’è un errore di non poco conto da prendere i
n considerazione, tale da ridurre l’arte stessa ad una simulazione. Non può essere così! Ma prima voglio dirti delle mie ultime ore in Iran. (…) Salutari interferenze sono dunque sopraggiunte nella mia mente. L’impresa è difficile, quasi impossibile, anche se decisiva per la mia vita. Di tutti gli impossibili mezzi possibili, quello era il meno interessante, altre vie devo percorrere. (…) Essere in qualche modo Kiarostami, e approdare così a Copia Conforme, mi pare in verità meno arduo – in qualche modo quindi meno interessante – che restare Luigi Vèder e arrivare a Copia Conforme attraverso le esperienze di Luigi Vèder.

L’ipotesi di essere Kiarostami aveva sì delle difficoltà di un certo tipo ma aveva anche dei vantaggi che non stavano però nelle intenzioni dell’artista, come per intenderci, quello di una possibile autobiografia implicita dell’autore iraniano. “Essere Kiarostami” avrebbe infatti costretto all’esplicitazione in qualche modo di un personaggio “Kiarostami” e dunque di mettere quest’ultimo in relazione con Copia Conforme e non di Vèder. Per condurre a termine l’impresa, come lui stesso mi scrisse, doveva però “essere immortale”. Mi piace immaginare che ci sia riuscito. Quando rivedo con il lettore dvd Copia Conforme mi diverto a credere che sia stato realizzato proprio da Vèder. In alcune sequenze riconosco il suo stile, come per esempio nella scena in cui la gallerista francese accompagna il critico nel paese di Lucignano, dove gli mostra un ritratto femminile a lungo ritenuto autentico, ma poi rivelatosi una tarda copia, senza che per questo si sia rinunciato a esporlo. O anche nel punto in cui il film inizia a girare su stesso, con la proprietaria di un bar che scambia i due in gita per marito e moglie e con loro che accettano il gioco in pubblico e in privato. Un avvitamento che conduce a uno stallo sublime che facilmente è rintracciabile nella postura estetica di Vèder. Ci sarebbe da chiedersi perché mai proprio Copia Conforme. “In Kiarostami in generale e in particolare in questo suo ultimo film – spiega Vèder – c’è l’allegria del contingente, dell’apparire del mondo qual è provvisoriamente sotto l’occhio della macchina da presa, una continua digressione segnata dal percorso di un viaggio in auto, con il solo parabrezza quale unico limite costrittivo e di proiezione verso l’altro. Insomma, la libertà di sottrarsi al necessario, con l’aggiunta dei ricordi in me rimasti di Copia Conforme, tali da permettermi di considerarlo un’immagine anteriore di un film mai girato, mi sottopongono a un compito alquanto arduo…”. Il misterioso obbligo che si è autoimposto, di ricostruire un’opera spontanea, non pensate che nasconda la famosa massima di Orazio “Non omnis moriar” (io non morirò del tutto) e cioè di assegnarsi, in anticipo su giorni che lo vedranno ridotto in polvere, un futuro persistente e radioso. Queste cose si sa come vanno a finire, col passare degli anni un film piacevole diventa occasione di incontri mondani, di aperitivi, di spocchiose prese di posizione, di sguaiate e ingombranti edizioni di lusso. Come scrive il mio venerato maestro Jorge Luis Borges: “La gloria è una forma d’incomprensione, forse la peggiore”. A dispetto dei vari ragionamenti sinora compiuti, confrontando la frammentaria (per ora) realizzazione di Copia Conforme di Vèder con quelle di Kiarostami, si notano le inevitabili differenze. Lì dove la gallerista e il critico sono immersi in un paesaggio della Val di Chiana in Toscana, quale tributo alla Film Commission locale, raggiungendo al tempo stesso un efficace effetto di stucchevole irrealtà, in Vèder lo sfondo non ha una connotazione geografica inequivocabile, se non in misura di un richiamo a uno scenario agreste. Altrettanto vivido il contrasto tra gli stili. C’è in Vèder una scioltezza nel muovere la macchina da presa che a tratti si piega a una qualche affettazione. Non così quello del precursore che con mano ferma inquadra il tutto privo di qualsiasi tentazione proveniente dai fuori campo reali o immaginari. Impressiona in particolare lo slittamento di costellazioni intellettuali nelle medesime sequenze, anche nell’evidenza d’identità di inquadrature e immagini, come per esempio nel finale nella stanza d’albergo, con le allusioni alla crisi di coppia e a quanto permanga nel presente del passato e del futuro.

Non c’è ambizione intellettuale che non sia condita di futilità, a entrambe non si sottrasse Vèder nella sua impresa complessa, forse più di molte altre. Dedicò notti e giorni alla sua opera invisibile. Girò migliaia di ore nel tentativo di rifare quanto era già stato compiuto da Kiarostami. Passò solitario un tempo incalcolabile in sala di montaggio. Non permise a nessuno di visionare il montato finale, anzi con premura si adoperò a che non sopravvivesse. Inutilmente ho cercato di ricostruirlo.

Mi scrisse tra le altre cose: “Copia Conforme è una sorta di palinsesto della visione da cui possono ripartire ulteriori e infinite altre immagini e storie. Narrazioni che lì stanno semplicemente in potenza, quale soglia entro cui tecnicamente ci si prepara all’inesauribile atto del vedere, precondizione di qualsiasi concatenazione logica, dopo di cui ogni banalità è possibile”. Vèder ha dato una nuova consapevolezza e forza al ruolo alla visione, a colui chi si mette davanti ad un film o immagine che sia per vedere. Ha messo in rilievo una tecnica che altri in futuro potranno irrobustire nella teoria e nella pratica: la tecnica di ripercorrere scene, storie, montaggi, primi piani, inquadrature di ogni sorta all’interno di un tempo e spazio differenti da quello originario e di ricorrere ad attribuzioni erronee. Questa tecnica, inesauribile nella sua applicazione, ci invita a passare con gli occhi La Terra di Aleksandr Dovzenko come se fosse posteriore a Le quattro volte di Michelangelo Frammartino, e Taxi Driver di Martin Scorsese, come se fosse di Martin Scorsese. Questa tecnica popola di avventure i film più calmi. Attribuire a Pier Paolo Pasolini o Roberto Rossellini Alice nel paese delle meraviglie, non sarebbe un sufficiente rinnovo di quelle oniriche avventure?

 

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