Abbiamo incontrato Luigi Lo Cascio lo scorso agosto a Casacalenda, in occasione del Molisecinema. Ultimamente Lo Cascio ha fatto delle partecipazioni in film come Miracolo a Sant’Anna, attualmente in sala, e in Baaria di Tornatore, ancora in fase di lavorazione, ma attraversa una fase di ritorno alle sue felici origini teatrali con due spettacoli di cui è anche autore: Nella tana e La caccia. Presto, però, lo rivedremo protagonista in una commedia di Pupi Avati con Abatantuono, Neri Marcore’, Fabio De Luigi, Laura Chiatti … Per un autoritratto sintetico e divertente di Luigi Lo Cascio cliccate qui.

Vorremmo ripercorrere con te i principali personaggi della tua carriera cinematografica. Quali sono quelli che più ti hanno coinvolto, che ti sono rimasti dentro anche a distanza di tempo? 

Sicuramente una delle cose che impressiona di più gli spettatori riguardo agli attori, soprattutto quelli di teatro, ma anche quelli di cinema, è la memoria; ti chiedono “Come fate a ricordare tutta quella parte?” Sembra una cosa prodigiosa. Oppure un’altra domanda che fanno, soprattutto i bambini, è “Come fate a piangere?” Queste sono le curiosità più comuni.

Io credo però che l’attore, accanto al discorso della memoria, ha come elemento fondamentale anche quello dell’oblio. Rimane sicuramente qualcosa dei personaggi che si interpretano, ma l’attore è nello stesso tempo costretto a fare piazza pulita, a separarsi dai suoi personaggi. Bisogna considerare il fatto che il tipo di contatto che si ha con un personaggio non è di adesione totale: anche nel periodo in cui lo si interpreta è un rapporto di entrare e uscire, è un’intermittenza, non è un rapporto esclusivo. Mi rendo conto che sto togliendo al mestiere dell’attore un po’ di romanticismo…

Forse lo rende anche un po’ meno morboso…

Quando giravo Buongiorno notte, nello stesso set si girava The Passion: in quell’occasione mi è capitato di vedere l’attore che interpretava Gesù che nella pausa pranzo benediceva le persone. Non è il caso, per una buona salute mentale, di arrivare a questi estremi di totale fusione col personaggio… a teatro è molto più semplice capire questo, perché alla fine dello spettacolo si va a trovare l’attore in camerino e nessuno si sogna di trovare lì Amleto. Lì trovi l’io privato dell’attore: si esce dallo spazio della finzione e si entra nello spazio della relazione con una persona. Nel cinema questa capacità dello spettatore di scarnificare la maschera e di arrivare al volto dell’attore è molto più complicata perché c’è questa coincidenza quasi totale. Sembra sempre strano che l’attore non sia in sintonia emotiva con il personaggio. Invece il cinema, se ci si pensa bene, comanda questa frammentazione, è fondato su qualcosa che non ha nulla a che fare con il flusso, che invece contraddistingue il teatro. Può capitare addirittura che in una giornata di lavoro si dica soltanto un “buongiorno”. Quindi, a parte alcuni casi di fanatismo, l’attore riesce  a controllare il passaggio dalla persona al personaggio. E’ quello che si chiama tecnica.

Tutto questo preambolo è per dire che anche nel momento in cui si sta su un set non si è in una condizione di dipendenza, di subalternità rispetto al personaggio, la relazione che si ha con lui non è diversa da quella che può avere uno spettatore, che può dimenticare subito la storia che ha visto o portarsela dietro per sempre. Dal punto di vista della professione l’attore deve fare largo all’ingresso di qualcos’altro, si deve lasciar “colonizzare” da qualcos’altro, è come quando si lascia una casa imbiancando le pareti: bisogna fare pulizia per fare in modo che qualcun altro possa abitarla.

Un altro elemento di risposta potrebbe essere questo:  le cose che uno ricorda in maniera analitica sono le cose meno influenti. I personaggi mi lasciano delle cose che non sono dell’ordine del luminoso, del nitido; sono cose che in qualche modo diventano natura, entrano a far parte della mia persona senza che io ormai riesca a riconoscerle. È come dire “quanto sei palermitano!” Tutto quello che descrivo è meno influente del fatto di aver vissuto a Palermo, di avere ascoltato la lingua per un certo periodo di tempo, di essere cresciuto in una condizione climatica di un certo tipo… anche i personaggi magari hanno questo tipo di influenza implicita che non distingui.

Allora ti chiediamo: quale dei tuoi personaggi ti ha lasciato la maggior quantità di questi  residui sotterranei, inconsci?

…. è chiaro ad esempio che ci sono certe cose di Nicola Carati de La meglio gioventù che mi interessano, che mi sembra che siano importanti, ma non è il personaggio, è eventualmente il tema, cioè l’antipsichiatria, la conoscenza di Basaglia, quello che mi può cambiare la vita, non è Nicola Carati. Il personaggio ti porta a conoscere delle cose che chiaramente ti arricchiscono – sarebbe assurdo dire che non lasciano niente – però sento il bisogno di abbreviare l’enfasi rispetto al fatto che queste cose cambiano la vita. Ciò che rivoluziona la vita credo sia altro… ad esempio, attraverso Peppino Impastato ho capito cose importanti che hanno a che fare con la mafia, ma non bisogna aspettare un personaggio per preoccuparsi di certe tematiche… ecco magari Peppino Impastato per me è in una condizione diversa rispetto agli altri personaggi, perché è una persona realmente esistita. Con I cento passi siamo nel campo di un’esperienza totale perché alcune cose mi hanno segnato come persona, non come attore. Conoscere la madre, il fratello di Peppino Impastato, stare nel suo stesso paese, entrare nella sua casa… c’è stata una sensazione di avere un rapporto effettivo con qualcuno, mentre con i personaggi inventati questo qualcuno coincide con la costruzione che tu stesso fai, chiaramente con una sceneggiatura e con il regista, ma è qualcuno che prima non esisteva, mentre nel caso di Peppino Impastato c’era proprio una persona in carne e ossa di fronte a me. Mi hanno colpito le cose che ha scritto e che ha fatto. Nel vivere l’esperienza dell’interpretazione ho conosciuto certe cose che mi hanno profondamente influenzato.

Hai iniziato col teatro, vero?

Sì, io studiavo medicina e contemporaneamente con gli amici facevo degli spettacoli di cabaret in forma goliardica (era il periodo degli Skiantos, del demenziale…), giravamo l’Europa e l’Italia facendo degli spettacoli in piazza. Però non pensavo d
i fare l’attore. Poi verso i ventun’anni mi ha visto un regista teatrale, Federico Tiezzi, che mi ha offerto una piccola parte in Aspettando Godot. Facendo lo spettacolo mi sono appassionato al mestiere dell’attore. Quindi non è stata né una suggestione di tipo culturale né il fatto di voler fare l’attore, diventare famoso…

Se non sbaglio studiavi  psichiatria, vero? 

Sì, era l’indirizzo di medicina che avrei voluto fare.

Dunque avevi scelto qualcosa che ha comunque a che fare col mestiere dell’attore…

Beh, sì, tutti i mestieri che hanno a che fare con l’arte, quindi con l’uomo, riguardano la psichiatria. La psichiatria è quella disciplina della medicina che si occupa della mente, dell’anima e quindi non può che interessare a un attore… Che poi difficilmente le opere si occupano della felicità… la felicità è come se non costituisse materia di investigazione, invece tutto ciò che ha a che fare col disagio, col problema, è proprio ciò che alimenta sia l’interesse dell’artista che successivamente la messa in opera di un’idea. La felicità è irrappresentabile, è una condizione soggettiva che già un amico non capisce molto bene… mentre invece il dolore lo racconti, l’altro partecipa, ti racconta il suo. Anche la comicità non ha a che fare con la felicità: può eventualmente muovere al riso ma ha più a che fare con certe zone d’ombra, con certi tabù, con cose che, una volta esaurito il momento vertiginoso e convulsivo della risata, lasciano l’amaro in bocca.

E allora com’è nata la decisioe di fare l’attore, anziché studiare medicina?

La passione per il mestiere dell’attore è nata facendolo, per delle scoperte che rasentano l’ovvietà ma che per me erano delle novità. Le attrattive erano il fatto, ad esempio, di passare molto tempo con un regista e degli attori già importanti, o il fatto che durante le prove si potesse stare un mese su una parola, un’intonazione… sono cose che possono sembrare assurde ma in realtà sono il sale stesso delle prove…

Le descrivi quasi come un gioco…

Sì, in un certo senso. Ma sono solo apparentemente cose senza importanza perché anche nella vita siamo totalmente in balia del linguaggio. Questa attenzione alla frase detta bene non è una semplice questione di educazione alla pronuncia, ma una questione che tocca subito l’etica, tocca subito il discorso di cosa significhi articolare il linguaggio in un certo modo, subirne gli influssi, essere soggiogati dal potere della parola… Quando si entra nell’ambito linguistico si è già in un’area anche politica. Comunque, come dicevi tu, recitare è anche un gioco ed è bellissimo riprecipitare nella condizione di guardie e ladri, di indiani e cowboy, per questo io provo lo stesso piacere nel recitare in un thriller come Occhi di cristallo o in una commedia; non mi sento chiamato da un compito civile… cerco anche il divertimento, mi piacerebbe che in Italia tornasse con più forza la tradizione dei film di genere.

Il film proiettato qui al Molisecinema,  Il dolce e l’amaro, va un po’ in questo senso… è pieno di tensione, è avvincente…

Sì, esatto, Porporati voleva che il film fosse popolare anche in questo senso, non sofisticato ma allo stesso tempo non sciatto. Porporati racconta gli aspetti comici o patetici di Cosa nostra, ma anche la sua brutalità e il fatto che un uomo non si ritrovi in sintonia con la disumanità che gli viene suggerita. E mostra allo stesso tempo come una persona che non possiede strumenti culturali ed economici possa cadere più facilmente nella trappola della mitologia mafiosa…

Ci puoi parlare un po’ delle tue ultime esperienze di autore teatrale? Ci sembra che hai fatto uno spettacolo su un testo di Kafka… 

Ultimamente sono tornato a fare teatro – dopo aver cominciato col cinema non l’avevo più fatto –  con ben tre spettacoli: uno con Ronconi, Il silenzio dei comunisti, tratto da un testo di Miriam Mafai, Reichlin e Foa (era per le Olimpiadi invernali a Torino), e poi ho realizzato due miei spettacoli. Il primo è tratto da La tana di Kafka, è intitolato appunto Nella tana e a Roma è andato in scena al teatro Valle. Il secondo lo sto preparando adesso, sarà al Valle a febbraio, e si chiama La caccia: è tratto da Le baccanti di Euripide. Entrambi sono stati ideati insieme a Nicola Consolo, un artista palermitano molto bravo che conosco da tempo ma che ho rincontrato sul set dei Cento passi nel quale faceva l’aiuto scenografo.  Abbiamo fatto questi due spettacoli insieme perché la componente visiva è molto forte, ci sono delle animazioni… Nella Tana erano delle animazioni fatte con una sostanza cretacea che poi si trasformava, nella Caccia invece c’è un grande schermo con dei disegni fatti col gesso su lavagna, alcuni sono realizzati dal vivo… Sono degli spettacoli che hanno una certa complessità di scrittura, sono riscritti da me e sono le cose a cui tengo di più, forse… perché mentre nel cinema sono totalmente attore e mi fa piacere anche la manipolazione da parte del regista – lo accetto volentieri anche quando si arriva a sentirsi marionetta (in senso alto ovviamente) -, il teatro, essendo fatto soprattutto di linguaggio, di messa in scena di un codice che viene inventato e che l’attore sostiene, consente una sperimentazione linguistica maggiore. Nel cinema, così come viene fatto adesso, l’attore non ha molti margini di sperimentazione. La sperimentazione, che appartiene sostanzialmente al regista può essere di tipo narrativo, cioè come si concepisce una storia, oppure di tipo visivo, cioè come si fa un’inquadratura o che tipo di montaggio si sceglie di fare. L’attore in un film è chiaramente inchiodato alla naturalità, alla verosimiglianza, passa da un personaggio all’altro però non c’è un’ampiezza di registri particolare… In una pièce teatrale,invece, l’attore può inventare una lingua. Per questo la scrittura della Tana e della Caccia è stato per me un  momento piacevolmente autoriale. Nella Caccia, il piacere maggiore è stato quello di offrire una variazione di questa tragedia greca, di approfondire il tema della caccia, molto presente nelle Baccanti, sottolineando la trasformazione del cacciatore in preda, la sua attrazione per la preda… Ho dovuto anche affrontare le difficoltà di a
ttualizzazione di un testo tragico: mi sono dovuto chiedere che senso ha oggi la maschera visto che adesso si recita col volto nudo e lo spettatore pretende che tu sia qualcuno riconoscibile… Oppure il coro: ha senso adesso il coro oppure no?

Hai detto che nel cinema non ci sono margini di sperimentazione… anche nel cinema però c’è scrittura e riscrittura…

Sì, ma è una riscrittura che passa attraverso la tecnica cinematografica: la sceneggiatura per un film è veramente il suo stadio primitivo, mentre nel teatro la scrittura diventa direttamente testo scenico…

La “sicilianità”: quanto conta il fatto di essere palermitano nella tua vocazione di attore?

Credo che conti… io mi porto dentro questo discorso del piacere della parola, che è molto siciliano… potremmo addirittura farlo risalire ai sofisti ai tempi della Magna Grecia… in Sicilia c’è molto questo gusto del discorso, ma anche del suo contrario, il fatto che c’è una ragione per un’idea ma anche per quella contraria. Anche l’idea del mondo come rappresentazione ha molto a che fare con la Sicilia. Pirandello è quello che su questi temi, sul rapporto tra verità e finzione, ci ha fondato un intero universo teatrale, ma sicuramente subiva l’eredità sia dei sofisti che del barocco: noi abbiamo avuto gli spagnoli per secoli e quindi la vita come rappresentazione e la città come palcoscenico sono delle cose che si avvertono moltissimo in Sicilia. Io suppongo che questi elementi della cultura siciliana, che si esprimono anche in forma di scetticismo, abbiano contribuito a formare una parte del mio carattere.

Grazie!

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3 commenti su “Lo Cascio, il paradosso dell’attore smemorato

  1. Più che un commento la mia è una ricerca di contatti, che non trovo sul sito in quanto pessima navigatrice. Ma domani è il compleanno di Luigi e desidero fargli gli auguri a modo mio (artista anch’io). Come faccio? Grazie e a presto. Rosy

  2. Ciao Rosy, mi dispiace ma non posso darti il suo indirizzo mail, d’altronde non ha neanche un sito ufficiale… comunque magari leggerà qui delle tue buone intenzioni!

  3. Bell’intervista… Ritengo Luigi un grande attore, uno di quelli che ha risollevato il cinema italiano… Anche se sono sicura che lui non amerebbe questa definizione! In tutti i suoi film recita davvero bene, è un istrione, sa adattarsi anche a personaggi opposti (mi vengono in mente Peppino e Saro)… Spero che prima o poi crei un suo sito ufficiale, per restare aggiornata sui suoi prossimi impegni; mi piacerebbe molto vederlo a teatro, ho visto che Nella Tana” era stato messo in scena a Trieste ma per me era troppo lontano… Speravo venisse anche dalle parti di Milano ma a quanto mi risulta non è stato cosi’. Peccato, sarà per la prossima tournée… Fino a quel momento, i miei piu’ sinceri complimenti “telematici”!

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