[****12] – Mette a disagio e fa sentire inadeguati scrivere di un film che pone radicalmente al bando la parola, che affida solo alle immagini e ai suoni il compito di raccontare la sua storia. A maggior ragione se, ed è il caso de Le quattro volte, il film in questione riesce pienamente nel suo intento, non facendo sentire nemmeno per un momento la dichiarata assenza, anzi rendendola una delle leve della sua capacità di coinvolgere lo spettatore. A scriverne, insomma, a farne parola, sembra quasi di tradirlo.

Allo stesso tempo però l’opera seconda di Michelangelo Frammartino, già lodato qualche anno fa per l’esordio de Il dono (2003), è una di quelle visioni che si prova piacere a condividere, a far durare oltre il tempo della fruizione – come capita solo alle opere di sicuro valore, che si consumano senza consumarsi – tale è lo stupore e la partecipazione che riesce a generare in occhi disponibili. In più, nota la realtà produttiva-distributiva in cui il film si muove, si prova anche un certo senso del dovere a recensirlo, come se la piccola finestra di visibilità che è possibile concedergli dalle pagine di una rivista specializzata, o semplicemente attraverso il chiacchierar di cinema, possa in qualche modo sottrarlo a un destino di oblio in parte inscritto nel suo stesso DNA (si pensi che una delle case co-produttrici porta il nome fin troppo consapevole di Invisibile Film…) e che nemmeno il passaggio al Festival di Cannes immediatamente precedente l’uscita nelle sale sembra aver intaccato.

Ma soprattutto Le quattro volte si impone al dibattito cinefilo, vincendo anche i ragionevoli dubbi di cui all’inizio, per la forza sorprendente del suo linguaggio.

Considerato infatti il segno di alcune sue scelte di fondo (la già menzionata rinuncia ai dialoghi, ma anche il rifiuto della colonna sonora extradiegetica e l’utilizzo esclusivo di attori non-professionisti) e visto il suo frettoloso e approssimativo incasellamento nel genere documentario, ci si aspetterebbe, recandosi in sala per vederlo, un meno di cinema: cioè la proposizione sullo schermo di un preteso sguardo oggettivo sulla realtà, e conseguentemente una regia poco appariscente, remissiva. Tutto all’opposto Le quattro volte è un tripudio di cinema, la messa in scena consapevole di un occhio che osserva il mondo con partecipata attenzione e ne rielabora poi una visione propria, autonoma e definita.

Il film racconta lo scorrere del tempo in un lontano paesino dell’entroterra calabrese, uno di quei luoghi che sembrano esistere fuori dalla storia. Si tratta di Alessandria del Carretto, poco più di cinquecento anime raccolte sul Massiccio del Pollino, lo stesso paese dove circa cinquant’anni fa Vittorio De Seta, maestro e nume del documentario etnografico, girò il corto I dimenticati. Sullo schermo seguiamo le vite di quattro “personaggi”: un uomo, un animale, un albero e infine il carbone ricavato da quest’ultimo. L’uomo è un anziano pastore malato, di giorno pascola il suo gregge, la sera cerca con rimedi tradizionali di curare una tosse maligna: scioglie nell’acqua la polvere raccolta dal pavimento della chiesa e la beve. La cura però non sortisce effetto e l&rsquo
;uomo muore. In seguito, una delle sue capre vive una disavventura, perde il contatto col resto del gregge durante il pascolo e si smarrisce. Trova riparo sotto un altissimo abete. Lo stesso abete viene poi tagliato, trasportato al centro del paese, addobbato e infine issato – una sorta di albero della cuccagna – per la rituale festa della Pita, celebrazione della fertilità. Al termine l’albero viene bruciato e si trasforma nel carbone che alimenta i camini delle case del paese.

I quattro episodi sono strettamente legati l’uno all’altro e da quattro le storie possono in realtà condensarsi in una sola: la storia eterna e immutabile della Vita sulla Terra, che per Frammartino, milanese di nascita ma calabrese d’origine, non può che essere raccontata come un tutto unico. Il film si chiude infatti in maniera perfettamente ricorsiva: nell’ultima sequenza un sacco di carbone viene depositato proprio sull’uscio della casa che era stata del pastore. Ma le connessioni vanno al di là dei nessi strettamente narrativi. Questi quattro movimenti acquisiscono senso solo se letti insieme, sono in realtà frammenti di un’unica anima. Perciò l’autore pone queste esistenze e le loro storie tutte sullo stesso piano, senza piegarle all’egemonia dell’Uomo e senza antropomorfizzazioni. Se De Sica a suo tempo abbassò la cinepresa ad altezza-bambino, compiendo uno dei gesti poetico-cinematografici essenziali del Neorealismo, Frammartino si può dire che abbassi (o elevi!) la cinepresa ad altezza-animale, vegetale e minerale, in una sorta di neorealismo panteistico di cui al cinema davvero non si aveva esperienza.

Una sequenza in particolare del film, collocata strategicamente circa a metà, lunga e assai articolata, riassume crediamo al meglio la poetica di Frammartino; val la pena perciò tentare di descriverla, senza forzarne i significati e provando invece a lasciarli desumere, unitamente alle emozioni che la sua visione ha generato, dal semplice racconto.

 

Venerdì santo. Il paese lascia in blocco le case per seguire la processione della Via Crucis. Così, quando in seguito a un banale incidente il recinto in cui è raccolto un gregge di capre si apre, nessuno se ne accorge. Gli animali possono disperdersi liberamente per il paese, si addentrano nelle viuzze interne deserte; dapprima spaesati, sembrano mano a mano acquisire una certa risoluzione. La mdp è molto mobile, segue il movimento disordinato del gregge, che si infila fin nelle abitazioni lasciate incustodite. Una parte arriva addirittura a salire la scala stretta e tortuosa che porta all’unica casa non disabitata. Qui dentro, disteso nel suo letto, giace l’anziano pastore. Sta morendo. Le capre invadono il suo spazio domestico, una si arrampica fin su un tavolo, da qui osserva il letto dell’uomo. La soggettiva dell’animale (!) ci mostra il viso del vecchio quietamente agonizzante. Il controcampo di lui ci rimanda il volto della capra, in primissimo piano, ma non pienamente definito: lentamente, mentre il vecchio esala, sempre più radi e pesanti, gli ultimi respiri, la sua vista sfoca fino a dissolvere a nero.

Segue il funerale, la scarna processione del paese per salutare il pastore. L’ultima inquadratura è la chiusura della bara, dall’interno della stessa. La soggettiva del cadavere (!) è progressivamente occlusa dal legno fissato a martellate per chiudere la cassa, fino all’ostruzione completa dello sguardo. Schermo nero, ancora.

Il nero si prolunga per alcuni secondi. Un suono inizialmente indefinibile lo invade poco a poco. è il verso sofferente di un animale. Il primo improvviso frame che segue il nero, senza assolvenze o filtri, ma con un semplice cut, è l’immagine di una capra (forse la stessa che fissava il pastore?) nel momento preciso in cui espelle da sé, lasciandolo cadere al suolo, un capretto bianco.

 

All’uscita dalla sala si fa davvero fatica a distaccarsi da un’esperienza così radicalmente alternativa alla proposta audiovisiva corrente e ai suoi dettami estetici, un cinema che non somiglia a nient’altro. Andando indietro con la memoria viene di certo in mente De Seta per le ragioni dette sopra; Olmi e Piavoli, pure, sono sicuramente tra le visioni di Frammartino. Ma per trovare il riferimento più pertinente si deve andare forse ancora più indietro, al capolavoro sovietico La terra firmato da Aleksandr Dovženko negli anni ’30 e alla scena indimenticabile del vecchio che disteso sull’erba in mezzo ai suoi cari annuncia tranquillamente “Sto morendo”, e la natura attorno muore con lui. “Film di fantascienza senza effetti speciali”, esempi limpidissimi di un cinema che non c’è (mai stato).

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