di Fabrizio Funtò/ Freschi della discussione su Austerlitz di Sergey Loznitsa, siamo andati a vedere questo memorabile La Verità Negata di Mick Jackson, con Rachel Weisz e Tom Wilkinson (in sala con Cinema di Valerio De Paolis).

E quindi riprendiamo la discussione, appena interrotta, sui luoghi sacri del dolore dei Giusti.
Il nocciolo del film è un insegnamento che oggi potrebbe essere fulminante per tutti coloro che intervengono spropositatamente in una discussione, reale o virtuale (in un social, ad esempio) non riflettendo mai su come dire la “cosa giusta” in quel contesto comunicativo, ma che vengono piuttosto trascinati (e obnubilati, loro malgrado) dalle proprie emozioni, dal proprio desiderio di “sfogarsi” ― ed emettono castronerie sesquipedali. Perché non vedono l’ora di “tirare fuori” tutto quello che hanno dentro.

Nessuno conta più fino a dieci, oramai, nel tempo di Facebook. Ma già, la comunicazione è “veloce”.

Molti li chiamano leoni da tastiera, gente che è interessata unicamente alla comunicazione dal punto di vista del proprio ombelico, eseguita guardandoselo e rimirandoselo. Modello Napalm51, per intendersi. Incluse le onnipresenti foto di cibi: appunto ciò che va a disporsi appena digerito esattamente dietro il proprio ombelico. Ed è ciò che chiamo “umano” (“troppo umano”, avrebbe aggiunto, sornione, il filosofo del ritorno).

La storia di questo film non è altro che quella di un processo ― ma che processo! Una scrittrice di origine ebraica, Deborah Lipstadt, viene trascinata in tribunale da uno storico ed irriducibile negazionista inglese della Shoah, David Irving. Il quale, come il lupo con l’agnello esopeo, si lamenta che la scrittrice a valle gli intorbidi la carriera di storico famelico a monte.
La scrittrice Deborah, interpretata dalla bravissima Rachel Weisz, decide di sostenere il confronto in giudizio contro Irving, ma anche contro i consigli della comunità ebraica accomodante: e ci va con tutte le sue passioni, con tutte le sue certezze e con tutti gli irrigidimenti sanguigni della vittima sacrificale in cerca di vendetta ― come anche di volitiva ed orgogliosa intellettuale americana che deve rispondere colpo su colpo alle offese ricevute, costi quel che costi.

Lei andrebbe al processo con tutto il pacco, vale a dire le contestazioni morali, le testimonianze dei sopravvissuti, le prove provate della intellighenzia ebraica. Apparentemente, tutto giusto. Ma solo apparentemente. Perché non pensa, non ragiona, non si fa astuto Odisseo nel mondo dei raggiri.

E, per sua fortuna, incontra un illuminato codardo. Già, un codardo confesso, che probabilmente posto nella condizione di decidere se uccidere inermi vittime o rischiare in proprio, avrebbe senz’altro ubbidito al Kapo per salvarsi la pelle. Un codardo, ma un grande, grandissimo avvocato, Richard Rampton (Tom Wilkinson). Ed una mente sottile, finissima. Un faro. Grande e duplice lezione: codardia e intelligenza, raffinatezza e sottomissione possono inopinatamente convivere. Una toglie, dove l’altra aggiunge. Si compensano, come in un “profit and loss”. Un mix esplosivo, che solo in Inghilterra può diventare dirompente e vincente.

Il team di avvocati inglesi che sostengono la Lipstadt, autopropostisi come suoi difensori per ovvi motivi pubblicitari (avevano già patrocinato la causa di divorzio della principessa Diana), decide di seguire una difesa che ha dell’assurdo. E che, nella sua assurdità ― e qui sta il punto ― rispecchia l’assurdità del mondo tutto intero, e in particolare di quella situazione paradossale.
Il nostro codardo legale Rampton sceglie anzitutto di giocare in casa dell’avversario, a Londra, e non negli Usa. Epperò lì, nel Regno Unito, è l’accusato che ha l’obbligo di discolparsi, esattamente il contrario di quanto avviene in tutto il resto del mondo, dove è il querelante a dover provare le sue accuse. Gli inglesi sono fatti così, al contrario, si sa.

Poi Rampton decide di non far comparire nessuno dei sopravvissuti sul banco dei testimoni. E nemmeno lei, l’accusata, Deborah Lipstadt. Anzi, decide di far sparire completamente la questione ebraica, in quanto tale, dalla discussione. Paradossalmente, agisce come negazionista per dare addosso al negazionismo. Geniale. E di prendere Auschwitz (e non l’appena abbandonato Austerlitz) ― un campo di lavoro riconvertito solo in un secondo tardo momento in campo di sterminio ― come teatro della disputa causidica di fronte al Giudice, per rendere perfino più arduo il già difficile compito della sua difesa.

Infine, mossa di una intelligenza suprema, quasi olimpica, chiede al giudice di andare a giudizio senza giuria, come era invece d’uso, ma confidando nella sola capacità dirimente di Vostro Onore.

Assurdo. Commuovere una giuria con le strazianti vicende della Shoah, sembrerebbe un gioco da ragazzi. Ma il disegno del ragionatore crea un arabesco logico che imbriglia e lega tutti i partecipanti al processo.

Sciaguratamente ― è la sua considerazione ― i nazisti erano stati moto bravi all’epoca, cancellando tutte le tracce oggettive dei loro misfatti, e proiettando così quella loro bravura criminale nel futuro che lambisce, come un’onda di risacca velenosa, la storia dei giorni nostri. E speriamo non vada oltre.

Non ci sono prove!

La bella Waisz, ovviamente, dà in escandescenze, non può accettare la negazione della negazione: le ombre dei sopravvissuti si affacciano al processo per reclamare il loro spazio, il loro obolo per Caronte. Impossibile negarglielo. Deborah si sporge, si espone, si disorienta e viene trascinata dalle proprie passioni, dal proprio credo, dalle proprie tradizioni, perfino dalle intime fibre della propria razza (sia detto fra consanguinei…). Non ce la fa più a resistere alla pressione: deve “sfogarsi” su Irving; vuole ― o meglio deve ― umiliarlo, deve esecrarlo: detto in termini moderni, lo deve “bannare” dalla storia! Nel processo. È l’onda della tempesta che si infrange contro lo scoglio, ma non lo distruggerebbe neppure in millenni. Lo scoglio la attende per ridicolizzarla, per farsene beffe, per frantumarla. Irving la attende, sornione, in aula. Non ha capito che sono necessarie due negazioni per affermare la verità.

Dove paradossalmente un tribunale inglese potrebbe sancire legalmente l’insussistenza della Shoah. Non solo per l’Inghilterra, ma per tutto il mondo. E persino per Dio stesso.
Il sagace Rampton neppure le dà retta. Ha capito in che sindrome sia precipitata Deborah, ma può solo compiangerla ― in omaggio alla tela del ragno che ha oramai dispiegato. Prosegue incessante. Ha fiutato la trappola di Irving e oramai vi sono due ragni, uno contro l’altro, l’un che deve far cadere l’altro nella propria tela. Non c’è spazio per passioni, non c’è spazio per un intero Olocausto.

Ah, se chi oggi si espone apertamente, chi parla in quel pubblico-privato che sono i social, fosse in grado di apprezzar ed ammirare questa architettura dell’infinitesimale, del sassolino che ci si leva dalla scarpa e che si pone dietro l’altro, per disegnare un a splendida teoria! Macché: pensiero vaniloquente…

Ammirate voi invece l’affresco della sceneggiatura ― tratta pari pari dal libro omonimo ― che testimonia la vittoria del Ragno contro la Mantide Religiosa.

Alla fine della Tempesta, il vento di passioni si cheta di fronte alla supremazia del pensiero razionale. Le due ebree, la scrittrice e la sopravvissuta di Auschwitz, che hanno rischiato di subire lo smacco di una nuova tragedia, una nuova frustrazione, una nuova beffa ― rimangono senza parole, mute di fronte alla “supremacy”.

Ciò che sorreggeva l’astuzia legale di Rampton era in realtà la vergogna del codardo. Che aveva però trasformato questa sua debolezza non in vendetta, ma in rivincita appassionata. In giustizia.

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