Il cinema italiano ha raccontato la fabbrica parlando di cumenda ed operai. Ha mostrato il luogo e documentato il mestiere. Spesso ne è rimasto ai margini, descrivendo gli effetti della condizione socio-esistenziale che il mestiere di operaio crea. Negli anni ’50 incontriamo il primo film italiano sulla fabbrica contemporanea. E’ un film originale e involontariamente molto moderno: una commedia amara che anticipa le vicende storiche dei decenni successivi. Si intitola Napoletani a Milano e la regia è di Eduardo De Filippo. L’anno è il 1954. La macchina da presa, che anticipa anche il tema dell’immigrazione interna, entra nella catena di montaggio della fabbrica e filma la crisi e la protesta operaia. I napoletani sono arrivati in stazione come pionieri a testa bassa verso il mattatoio, senza far ridere nessuno al contrario di come faranno, due anni dopo, Totò e Peppino nel film di Mastrocinque (Totò Peppino e la Malafemmina, 1956). I due “gomminidi” napoletani, in questo caso, Totò e Peppino, non dovranno fermarsi a Milano per lavoro, e potranno così esprimere tutta la loro simpaticissima e geniale antipatia per un mondo lontano dal loro. I napoletani di Eduardo, al contrario, sono una disperata comitiva che a Milano dovrà restare per inventarsi una dolorosa alternativa alle proprie, secolari abitudini. Come un gregge nella nebbia si avvia verso un ingegnere che dividerà il lavoro e li trasformerà di colpo in operai. Nel film c’è un realismo che mostra una verità nascente di cui non si comprendono ancora bene i meccanismi.

Dall’inizio degli anni ’60 i film italiani si riempiono di signori che vogliono sfruttare le innovazioni tecnologiche per ottenere potere. E di persone che si gettano a occhi chiusi nelle invenzioni create dal boom.

Nel film Il Maestro di Vigevano (Elio Petri, 1963) un Sordi in gran forma cede ai voleri della moglie che vuole metter su la “fabbrichetta” di scarpe. La laboriosa cittadina lombarda si sta inventando un presente imprenditoriale e l’onda travolge, suo malgrado, anche il sincero maestro elementare. Sordi, (il maestro Mombelli), crede nella cultura e sogna per suo figlio un futuro diverso. Sua moglie, invece, non vuol saperne di sacrifici e schiena curva a digerire Galileo e Garibaldi. “Le donne di servizio guadagnano di più”, sostiene decisa, ed il maestro si licenzia per partecipare allo sviluppo piccolo imprenditoriale della sua famiglia. Parliamo di una “fabbrichetta” a gestione familiare che non prevede nessuna relazione tra padrone ed operaio. E’ un laboratorio che produce in serie ma che esclude l’idea delle classi sociali. Avrebbe tempo la famiglia Mombelli di arrivare ai ritmi e ai guadagni delle famiglie che ammira ed invidia, se non fosse per l’inettitudine del povero Sordi che con il suo errore denuncia tutta l’idiosincrasia della commedia all’italiana per il “nuovomondo” del paese. Petri sarà ben più duro e amaro qualche anno più tardi con La classe operaia va in paradiso (1971), ma già con questa bella commedia fa luce sull’ardente desiderio collettivo di trasformare il tempo in profitto e di accumulare in fretta un capitale da gestire anche socialmente. Sordi, come tutti i protagonisti della commedia italiana, non ce la farà ed il film inquadrerà quel self italian made man che termina quasi sempre con un fallimento: caratteristica principale dei nostri “mostri”.

E’ imprenditore anche Totò nel film Le belle famiglie (episodio dell’Amare è un po’ morire) in cui deve correre in fabbrica per festeggiare la produzione del milionesimo frigorifero. Il film è del 1964, lo firma Ugo Gregoretti e proprio il frigorifero è un oggetto col quale il cinema comico italiano si avvicina, pudicamente e senza entrare mai, al mondo della fabbrical film Il Sorpasso (Dino Risi 1961) Gassman vuole comprare tutti i frigoriferi di un incidente. Lo spiega al povero Roberto, suo timido e malcapitato compagno di viaggio: “Vanno di moda i frigidaire? E io mi butto sui frigidaire”. Gassman ha un rapporto particolare con i frigoriferi, segno indicativo del tempo: nel film Il successo (Claudio Morassi 1962), film fin troppo “sorpassiano”, il solito Gassman, cialtrone ed arraffone, va a trovare un vecchio compagno di scuola che ha fatto fortuna con frigoriferi, scaldabagni e lavatrici. Il regista, secondo costume, non è per nulla tollerante nei confronti dell’imprenditore: figura mediocre, dichiaratamente fascista, rozzo e meschino. Non vediamo la fabbrica, ma l’enorme magazzino che contiene gli elettrodomestici e le figure professionali che lo popolano. La fabbrica è lì accanto, ancora inesplorata. Gassman non ottiene le risposte sperate e se ne va schifando il grosso grasso arrivista arrivato.

Lo schiaffo di Sordi nel finale di Una vita difficile è la manifestazione di un sentimento che pervade l’intera filmografia della nostra commedia. Un sentimento di livore che prescinde, per un intero decennio, da una denuncia diretta. Ancora Gassman nel film Il tigre (Dino Risi, 1967) è un ingegnere che cura ogni  aspetto della produzione. Un ministro visita la sua industria di frigoriferi ed egli si cura che il filmato pubblicitario (quasi un cinegiornale) sia montato con le frasi e i ritmi più consoni. Si arrabbia per alcune battute inserite dal regista e gli impone di rimontare il filmato. Anche lui, come Totò, festeggia la produzione del milionesimo frigorifero. Poco dopo è soddisfatto di uno spot sulle lavatrici. Troviamo una scena emblematica e stupenda, per descrivere l’avventura tecnologica del paese in uno sciapo film di Totò: Totò Peppino e le fanatiche, Mario Mattoli, 1958. Il grande attore racconta in prima persona (con voce off) l’uso che la sua famiglia fa dei nuovi mezzi tecnologici: “Tornato a casa fui accolto da un gran rumore”. E’ il rumore di tutti gli strumenti in funzione: trova in cucina la moglie e la figlia alle prese con elettrodomestici di ogni sorta. Il rumore è infernale, talmente forte che le frasi dei protagonisti vengono, da allora in poi, espresse con fumetti. Accesi ed in funzione ci sono un phon, un frullatore ed una scopa elettrica. La moglie mostra a Totò il frigorifero pieno di vivande. Poi la figlia lo conduce verso la televisione. Ancora di colpo verso la macchina del gas con forno acceso da cui esce fumo. “Non è nulla papà… è il pollo che brucia”. Poi le donne gli mostrano la lavatrice: “Vedrai papà che belle le tue camicie…” Totò ne tira fuori una ed è tutta strappata. La moglie gli mostra il rasoio elettrico ma, giunto sul frullatore, Totò dice: “Te lo faccio io un bel frullato di cambiali”. Le strappa e le frulla davvero, prima di farle bere alla figlia. Alla fine si sfoga col medico: “Casa mia è diventata una centrale elettrica!”. Un intero episodio del film Le coppie (Mario Monicelli, Alberto Sordi, Vittorio De Sica, 1971) si intitola Il frigorifero< /em>. E’ un simpatico documento scritto da Maccari, Sonego e Stucchi. Un altro di quei film che agitano con grazia il frustino mentre danno buonumore. Lo sketch che ci interessa è il primo, quello diretto da Mario Monicelli: Il frigorifero, appunto. Il bersaglio è la corruttrice società dei consumi riassunta nel mito degli elettrodomestici. La giovane e virtuosa consorte di un venditore ambulante emigrato a Torino non ha i soldi per pagare l’ultima rata del frigorifero e, pur di conservare nel suo sottoscala quel simbolo di decoro borghese amato come un figlio, decide con qualche imbarazzo di offrirsi, soltanto per una volta, ai primo venuto. Col consenso del marito cretino, batte il marciapiede e raggranella quanto basta. Ma l’appetito vien mangiando e le nasce la voglia della lavatrice. Il protagonista maschile è l’ennesimo trapiantato a Torino. Ne vedremo tantissimi, in questo piccolo viaggio nel cinema italiano, di sradicati del Sud che popolano la città sabauda. Nel solo 1961 arrivarono a Torino ottantaquattromila nuovi abitanti dal Sud, che “crearono” alla città uno sconvolgimento demografico e urbanistico enorme. 

Il cinema italiano degli anni sessanta è più attento alla figura del “nuovo ricco” che a quella del “nuovo povero”, non più contadino ma ugualmente sfruttato. L’unico film che parla esplicitamente di operai, pur essendo firmato da Mario Monicelli, non è una commedia ed è ambientato nell’ultimo decennio del secolo precedente. Il film è I compagni (1963) e il regista mostra dall’interno la macchina che produce guadagno e quotidiana sofferenza di classe. Vediamo la pausa pranzo e poi il duro lavoro degli operai che si lamentano delle 14 ore di fatica. Qualcuno vorrebbe andare dal padrone per chiedere una riduzione dell’orario lavorativo. Mastroianni è un intellettuale che si batte per la condizione operaia e il suo sforzo porterà allo sciopero. Il vecchio padrone teme l’azione operaia e si obbliga a prendere provvedimenti urgenti: “Oppure si concederà tutto agli operai”. “Compagni non mollate!” grida Mastroianni, incitandoli a non abbandonare la battaglia.

La commedia all’italiana si tiene abbastanza lontano dalla descrizione dei modi di produzione e dal mestiere di operaio. Bisognerà attendere gli anni ‘70, decennio in cui alla risata si sovrappone con più forza un cinema politico, per trovare le grandi commedie che ci avvicinano con decisione all’operaio. Due di queste sono Romanzo popolare, uno dei migliori film di Mario Monicelli (1974), e Mimì Metallurgico ferito nell’onore di Lina Wertmüller (1972). Entrambi i film hanno per protagonisti operai del meridione giunti al Nord per irrobustire le fila della nuova classe sociale nata da alcuni anni in un paese tradizionalmente agricolo come l’Italia. Nel primo film, ambientato a Milano, Tognazzi è un operaio che vive in agglomerati popolari e che ha sposato una giovane ragazza venuta dal paese: una giovanissima Ornella Muti. C’è una scena meravigliosa in cui l’uomo porta la ragazza sul terrazzo e le mostra le ciminiere della fabbrica poco distante. La frase che Tognazzi pronuncia è una immagine elementare: “Vedi, cara, un operaio davanti alla fabbrica è come un bambino davanti al panettone”. Il Tognazzi di Romanzo popolare è un operaio cosciente e politicizzato. Partecipa alle riunioni e non fa nulla per evitare l’inserimento di persone violente nelle manifestazioni e nei cortei.

Il Mimì della Wertmüller, invece, sbarca a Torino con una scena meravigliosa e senza dialogo. C’è un sottofondo di musica classica e Mimì sta fermo al semaforo, “terrone” avvolto dalla nebbia e frastornato dal traffico. Emerge dal grigiore e dai camion che passano, di tanto in tanto, alla fine di un campo lungo che lo denuncia piccolissimo dentro quella nuova e indigeribile realtà. In una lettera che scriverà alla moglie si descrive in questo modo: “Non sono più Carmelo, ora sono Carmelo metallurgico!”. Più tardi la moglie gli risponderà che nemmeno lei è più la donna di un tempo, ma una donna nuova: “Chi ti scrive non è la Rosa che conoscevi. Ora lavora in fabbrica, è una Rosa operaia che è tutta un’altra cosa, come dici tu”. Nel film è ben visibile la catena di montaggio ed il conflitto, ormai fortissimo, tra padroni ed operai. I compagni accusano Mimì di servilismo: “Sei passato dalla parte dei padroni…”. Nel film è sviluppato pure l’accento sull’immigrazione interna. Mimì spiega in un’altra lettera alla moglie: “Lavoro a Torino ormai da tempo, ma di torinesi non ne ho ancora incontrati”. Esempio emblematico della presenza massiccia di meridionali al Nord è quello del film La donna della domenica di Luigi Comencini, 1976: un siciliano trapiantato a Torino parla al telefono in dialetto, convinto che nessuno lo capisca. Peccato che nel bar siano tutti siciliani e che lo capiscano benissimo. Anche nel film La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana (2003) incontriamo il “terrone” operaio calabrese giunto a Torino per sfuggire a rassegnazione e disoccupazione. Lo interpreta un bravo Claudio Giouè che non può fare l’università come i suoi amici ed è costretto a combattere i pregiudizi della gente. Il tema dell’immigrazione interna fa entrare di diritto, in questa lunga lista di titoli, anche quei film che, senza entrare direttamente nella fabbrica, ci raccontano gli uomini che andranno a popolarla. Il primo titolo che salta in mente è Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, film del 1960.

Ritroviamo di nuovo il luogo della stazione: simbolo dell’atterraggio frastornato in un altro pianeta. Di notte, con i pacchi ed un misto silenzioso di paura e speranza. La famiglia dei Parondi sale sull’autobus ed ammira le luci di una Milano indifferente e notturna. Il primo ostacolo da superare è quello della lingua. La signora Rosa chiede al bigliettaio di chiarirle le informazione da lei annotate su un biglietto di fortuna. “Lambrate!” intuisce il controllore e “Lambrate?” riecheggia confusa lei. “Capolinea!” scandisce secco il bigliettaio e “Capolinea?” ripete a mezza voce la donna. Ha risvolti epici l’arrivo dei Parondi nel capoluogo lombardo. Gli ultimi si muovono con un carretto stracolmo di bagagli per i palazzi della periferia cittadina. Appena giunti nello scantinato che diventerà la loro casa, due donne milanesi gli daranno degli “africani”. I Parondi sono “terroni” e nemmeno l’allenatore di pugilato si guarderà dallo spararglielo in faccia. C’è una lettera scritta al figlio militare in cui Rosaria Parondi spiega benissimo lo sgretolamento della famiglia e con esso tutto un sistema culturale. Quella del Nord diventa la città degli sradicati, dei trapiantati, che lasciavano secoli di terra e di luce e si facevano un pezzettino di sud sul balcone delle “case alveare”, come le chiama Giuliano Gemma in un altro film sulla fabbrica e sulla condizione operaia: Delitto d’amore di Luigi Comencini (1
974). E’ un dolore necessario, espresso tristemente con la confessione che Rocco fa alla ragazza: “Quanto me ne vorrei tornare al paese. Nella mia terra dovrebbero esserci le condizioni che Milano garantisce”. Viene in mente la frase dell’immigrato anarchico Tognazzi nel film La vita agra di Carlo Lizzani, film del 1964: “A Milano non muore di fame nessuno”. Un altro film che descrive con immagini precise lo sradicamento dal Sud agricolo è quello realizzato da Gianni Amelio parecchi anni dopo: Così Ridevano, Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia nel 1998. L’ennesimo arrivo in stazione, il ghetto degli emigranti, il quartiere dormitorio, la mole Antonelliana scambiata per il duomo di Milano, che tanto è la stessa cosa, sempre Nord, sempre un altro mondo. Il cartello con affissa la scritta “non si affitta ai meridionali” è un altro pezzettino di Storia italiana.

Di gente del Sud sbattuta al Nord, per una “guerra” invisibile e lunghissima, parla anche il film di Steno L’Italia s’è rotta, del 1976. Il fondale è sempre quello di una Torino fredda e nebbiosa. Mancuso Tonino è vestito con una giacca di pezza a quadrettoni rossi e neri. Fa l’operaio ma il boom è finito. Anche Peppe Truzzoliti è un operaio ed è pure specializzato. Anche lui viene dal Sud, ma a causa della crisi economica non riesce a pagare l’affitto di casa. La padrona gli propone di prostituirsi con lei, ma la vecchia è nauseante e lui proprio non ce la fa. Tonino e Peppe si scontreranno, una mattina d’inverno, per una strada della città, e dalla discussione accesa che nascerà, i due si renderanno conto di parlare lo stesso dialetto. Comprenderanno di provenire dallo stesso paese e di avere amici e parenti in comune. “Abbracciame paisà” è l’urlo commosso che anticipa la loro unione. Se ne torneranno a Sud sorridenti e canterini. Ed arriviamo al film di Elio Petri: La classe operaia va in paradiso, pellicola del 1971. Lulù Massa è un operaio comunista con l’ulcera, magistralmente interpretato da Gian Maria Volontè. In mensa, Lulù cede il pranzo a un nuovo collega: “Prendi anche il mio cibo che ho lo stomaco spaccato”. E’ imbattibile nel cottimo ed è odiato dai compagni e amato dal padrone. Viene accusato di superficialità ed omologazione. “Credi che io sia un leccaculo?” si difende senza convinzione, “Io manco lo conosco il padrone”. Ha una moglie ed un‘amante che mantiene col duro lavoro. L’atteggiamento docile nei confronti della fabbrica cambierà radicalmente dopo un incidente che gli farà perdere un dito. Lulù si trasformerà da ultracottimista a ultracontestatore Caro Lulù”, gli spiegano, i compagni, “Siamo più forti, adesso, siamo cresciuti, abbiamo fatto passi importanti.” Viene licenziato per aver sostenuto lo sciopero ad oltranza ed è riammesso al lavoro grazie al sindacato che precedentemente aveva criticato. E’ il primo caso di riassunzione dopo il licenziamento per motivi politici ed è il secondo film italiano (dopo l’invisibile Omicron di Ugo Gregoretti del 1963) ad entrare in fabbrica per analizzarne il sistema produttivo e mettere a fuoco “con smania furibonda” (come scrive Mereghetti) “i vari aspetti della vita di fabbrica, compresi i rapporti tra uomo e macchina, tra sindacato e nuova sinistra, tra contestazione studentesca e lotte operaie, repressione padronale e progresso tecnologico. Dagli altoparlanti una voce spiega di avere la massima concentrazione mentre si lavora e di avere rispetto della macchina per non oltrepassare i limiti di sicurezza aziendali. Il controllore di produzione cronometra i tempi di lavorazione e suggerisce a chi porta i capelli lunghi di usare le cuffie. La contestazione accompagna tutto il film. Un megafono emette suoni stridenti e descrive severamente la condizione operaia. Si entra in fabbrica un mattino innevato, come in un lager, tra le grida degli studenti che invitano alla rivolta. “L’uomo è come la fabbrica, mangia come una catena di montaggio” esprimono le grida, “fabbrica di merda!”. All’entrata in fabbrica l’operaio Lulù viene perquisito ed ha una reazione isterica. Un lavoratore si lamenta della diminuzione del potere d’acquisto e Lulu’ capisce che il destino dell’operaio è quello di arrivare alla follia. “Ma tu lo sai a cosa servono i pezzi che costruisci?” gli domanda il vecchio operaio (Salvo Randone) finito in manicomio. “Un operaio ha il diritto di sapere il fine per cui lavora”. La catena di montaggio è mostrata con una scena solo musicale, con la stessa musica classica che “stonava” su Mimì quando sbarcava, fragilissimo, a Torino. La classe operaia va in paradiso è un film grottesco ed allegorico, un aguzzo e satirico ritratto della condizione operaia e della sua alienazione. Suscitò molte polemiche quando uscì, anche e soprattutto a sinistra. Vinse la Palma d’oro al Festival di Cannes ex aequo con Il caso Mattei di Francesco Rosi.

Vai… vai a vedere le partite, che ti rendi schiavo”, gridano i compagni a Lulu’, e questa scena fa eco ad altri film del periodo sulla condizione operaia: anche il Giulio Basletti di Romanzo popolare (Ugo Tognazzi) se ne andava felice a vedere il Milan dopo una settimana di amaro lavoro. E delle grandi squadre del Nord diventano tifosi tanti immigrati del cinema italiano: tifa Juve e va allo stadio il giovane Teocoli de L’italia s’è rotta, film  di Steno, 1976, ed il Bud Spencer di Torino Nera di Carlo Lizzani.

Operaio comunista, buono, onesto e un po’ tonto, è invece il Renato Pozzetto de La patata Bollente, pellicola di Steno del 1979. Il protagonista affronta a muso duro sia il padrone che i “fascisti” prepotenti in un film che non è un figlio degenere ma un’opera civile ed efficace che coglie alcune contraddizioni del vecchio PCI ed aggiunge contenuti al rapporto tra fabbrica e cinema italiano: Pozzetto si adira perché i sindacati mediano troppo e la Fenech, operaia rassegnata ad una vita di week end di periferia, ricorda ai colleghi che il giorno dopo è sabato e che lei vorrebbe andare a ballare. Sul rapporto tra cinema italiano e fabbrica interviene anche un altro film con Pozzetto protagonista, pellicola diretta ancora dal grande Steno, dal titolo Il padrone e l’operaio, 1980. E’ un’esperienza cinematografica senza lode, in cui la lotta di classe si gioca sulla potenza sessuale dell’operaio in opposizione alla quella debole del padrone. Anche sulla Fiat si è fatto un cinema leggero e amaro. E’ del 1976 il film di moltissime mani Signore e Signori buonanotte. Mastroianni è un conduttore di Tg e annuncia il rapimento di Giovanni Agnelli. Il giornalista manda in onda un servizio che mostra un documento filmato giunto in redazione. Si vede l’avvocato che è stato intervistato dai rapitori. Questi sostiene che sarà la sua famiglia a pagare il riscatto, ma per “sua famiglia” intende tutti i suoi operai: una colletta operaia.

Nord vuol dire Milano o Torino e Torino vuol dire Fiat prima di tutto. Di Mimì Metallurgico abbiamo già parlato ma un altro film degli anni settanta sull’emigrazione meridionale nel capoluogo piemontese lo firma Ettore Scola. Anche il regista nato in provincia di Avellino partecipa alla narrazione del cammino proletario, non sempre della speranza, verso la metropoli del Nord.

Anche il suo film, Trevico Torino-viaggio nel Fiat-Nam (1973), parla di una delle piaghe che il neocapitalismo “ha  ereditato tale e quale dai fascismi e dal paleocapitalismo “ (Alberto Moravia). Osserviamo ancora il morente mondo contadino che si addanna a diventare cittadino. Niente alloggi, niente assistenza sociale, niente scuole. Soltanto il lavoro dai ritmi disumani e la vita privata in dormitori schiavistici, borgate e mense collettive. Ancora l’emigrante che abbandona la sua comunità, comunque culla culturale ed affettiva. Ancora scoperta del concetto di individuo e di quello di massa, laddove individuo non significa soggetto ma oggetto. Il film fu recensito da Alberto Moravia e ci piace riportare alcuni passi del suo scritto: “La particolarità e originalità di questo dramma è che, a differenza dell’operaio nato e cresciuto nella metropoli, indurito, disumanizzato dall’astratta esistenza urbana, l’emigrante di origine contadina è ricco di aspetti umani e il suo destino, prim’ancora che spietato, è patetico.” Moravia commenta l’operazione di Scola: “Com’è possibile, infatti, non essere sentimentale trattando di un emigrante che è lontano dalla madre, dalla moglie, dai figli, dal paese natio, dall’ambiente naturale in cui è nato e cresciuto? Tutto questo va detto per spiegare e, in parte, giustificare il modo con cui il regista ha rappresentato il dramma del suo Fortunato, povero ragazzo di Trevico (centro in provincia di Avellino, nonché luogo di nascita del regista, ndr) emigrato a Torino, per lavorare alla Fiat. Il fatto che la direzione della fabbrica, a quanto pare, non ha permesso di girare il film anche nell’interno dei laboratori, ha costretto il regista a descrivere non già il lavoro quanto gli effetti di questo lavoro nella vita misera e solitaria del ragazzo e nel suo animo sensibile e inesperto. In altri termini, Ettore Scola ha messo l’accento sugli aspetti più patetici della storia di Fortunato sia perché Fortunato è un emigrante, sia perché non è stato possibile mostrarlo alla catena di montaggio, in un reparto della Fiat. La prima parte, di piglio documentario, è la migliore. Scola è molto efficace nel mostrarci ciò che avviene all’emigrato meridionale a Torino. Tutto è descritto con quella sobrietà e verità che, in una materia simile, diventano automaticamente indignazione e denunzia. Nella seconda parte, il tentativo amoroso di Fortunato con la ragazza contestatrice aggiunge al sentimentalismo proprio quello della condizione dell’emigrante”. Moravia avrebbe preferito che il regista insistesse sui toni della prima parte: “Nella conclusione ci pare che Scola si sia lasciato prendere la mano dalla sua grande e un po’ fredda bravura. Secondo noi il tono impassibile e dolente del documentario andava tenuto fino alla fine”.

Moravia ci aiuta ad inquadrare il modo in cui il cinema italiano ha raccontato la fabbrica e l’operaio. Il luogo si vede poco, anche perché non è mai semplice denunciare il presente. E’ sempre più facile rivisitare il passato. Dell’operaio si raccontano gli stati d’animo e l’universo affettivo. Quello tra cinema italiano e Fiat e è un rapporto che si sviluppa negli anni ’70 ma sembra che la distanza temporale, giusta a seconda dei punti di vista, stia irrobustendo questo rapporto a vista d’occhio. Nel 1995 Mimmo Calopresti dirige La seconda volta, film in cui un misurato Nanni Moretti entra negli stabilimenti Fiat per una visita guidata. Gli vengono spiegate le dinamiche di lavoro e si vedono le macchine in azione. Moretti è un docente di sociologia industriale e tiene una lezione circa la svolta aziendale della Fiat a cavallo tra gli anni settanta e gli anni ottanta. Riceve una studentessa per la tesi, che gli parla di un progetto sul rapporto tra la crescita dell’azienda automobilistica e la diminuzione del numero degli operai. Fa visionare al professore un’intervista fatta ad uno dei lavoratori licenziati. Il filmato è in realtà il frammento di un documentario dello stesso Calopresti sul delicato argomento della Fiat e del licenziamento. Il film, che è soprattutto un film sul terrorismo, mostra con pudore quell’angolo drammatico di paese e di Storia. Lo stesso stanno facendo alcune pellicole recenti di indagine storica. Film che, tornando indietro di quasi trent’anni, tentano di scansare il disinteresse calato sulla condizione operaia della fine degli anni ‘70.

Il film di Wilma Labate, Signorinaeffe, è uno di quei documenti che intervengono a certificare un momento storico più lontano di quanto il tempo non denunci. Il film riempie uno spazio storico che il cinema non aveva ancora occupato. E’ una sparata di luce sulla storia politica che tende a svanire e rientra a pieno titolo nel gruppo dei film utili, necessari ed importanti per il nostro paese. Ci piace associarlo a Guido che sfidò le BR, di Giuseppe Ferrara, del 2007, per la sincerità e la convinzione con cui entrambi i film gettano energia su due eventi fondamentali del nostro passato recente. Questi due film non fanno parte di un’Italia che non esiste più e che non ha nessun rapporto con quella (e con quello) che viviamo oggi. Al contrario, l’Italia di oggi è figlia di quelle scelte. Nessuno dei due film è un capolavoro e Guido che sfido le Brigate rosse è in certe parti addirittura rozzo. Ciò non diminuisce il loro valore ed entrambi i documenti posseggono la sufficiente quantità di calore per arrivare ai giovani che non sanno e ai vecchi che possono aver dimenticato. Entrambi si avvalgono della potenza del frammento d’archivio, del filmato originale e reale che rafforza ogni istante di film. Signorinaeffe recupera memoria scomoda, antipatica e dolorosa. E’ un film italiano di date precise e precisi fatti. Dà vita cinematografica allo snodo in questione: è il 1980. La Fiat impone il licenziamento di
15.000 operai (il film puntualizza che sarebbero stati molti di più). Gli stabilimenti vengono immediatamente occupati e dopo trentacinque giorni quarantamila impiegati manifestano il loro diritto al lavoro. Quel gesto eclatante rappresenterà una svolta politica per l’Italia. Per la prima volta una protesta ufficiale, diurna, è diretta contro la lotta operaia. E’ un segnale molto forte a due anni dall’omicidio Moro e ad uno da quello del sindacalista genovese Guido Rossa. Da questa svolta prende forma il coinvolgente e caldo film di Wilma Labate. La regista è brava a raccontarci le due facce della cultura operaia italiana: da una parte l’espressione seria, decisa e testarda di chi crede nell’identità e nell’onore della classe subalterna. Dall’altra la fetta di proletariato per cui l’unica soluzione vincente è l’abbandono di cotanta disgrazia per il divano caldo e signorile del piano superiore. La Labate (in una storia scritta con Domenico Starnone e Carla Evangelista) fa incrociare e interagire queste due facce della stessa famiglia: la coscienza e l’incoscienza operaia. Il servo leone e il servo agnello. Da una parte la barba, il ghigno, l’odio, la reazione (senza l’uso delle armi, del ricatto barbaro e del terrore) dell’operaio più letterario, cinematografico, eroico e lirico. Dall’altra la guancia in assoggettata posizione e la paura: l’elogio del padrone. Il film racconta l’operaio stanco e cieco, felice e contento di avercela fatta a diventare vecchio e padre con una tavola imbandita di ricordi meridionali e tosse. Di questi operai si parla poco perché sono poco strumentalizzabili. Sono carne ammassata che partecipa alla storia in silenzio e passivamente. Signorinaeffe, con tutti i suoi limiti estetici e narrativi, è un film che guarda indietro ma che si sofferma su un particolare significativo del nostro passato. Lo stesso fa il documentario di Francesca Comencini, In fabbrica: viaggio documentario nel percorso italiano verso l’industrializzazione con un sacco di bei materiali organizzati in maniera non eccelsa. Molto sulla Fiat e sugli sradicati del Sud ha detto pure Daniele Gaglianone. Il regista de I nostri anni ha realizzato parecchi documentari sugli operai della Fiat, con accenti duri e di denuncia senza sorriso. Cosa che il cinema italiano non è riuscito a fare spesso. Con più facilità la commedia si è infilata, col suo atteggiamento subdolo, in un tema tanto delicato ed importante per il nostro paese. Paolo Virzì, non a caso, (l’autore che meglio prosegue la tradizione agescarpelliana) ha messo la fabbrica sullo sfondo dei suoi primi film: La bella vita, ed Ovosodo. Oggi questa tradizione sembra essere interrotta dalla nuova energia apportata al cinema dal documentario. Anche il giovane cinema italiano sente la pressione del nuovo modo di raccontare e pare avvicinarsi all’argomento con un atteggiamento molto serio. L’esempio di Apnea di Roberto Dordit è quello che meglio sintetizza questo modus operandi.

 

 

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2 commenti su “La fabbrica nel cinema italiano: il convitato di pietra

  1. A latere di questo articolo, davvero interessante, viene da chiedersi quale sia il ruolo attuale del cinema nel discorso di riflessione sulla e della società italiana.

    Si parla qui della fabbrica e dell’universo operaio, così legati al nostro cinema e all’intima natura dell’Italia post-bellica, e soprattutto della capacità (direi passata) dei nostri autori di guardarsi allo specchio e cercare le linee guida del presente.
    L’universo operaio non scompare ma cambia, senza dubbio, e non a caso, ad esempio, Parole Sante di Celestini racconta un nuovo genere “operaio”: un precariato che è spesso proletariato.
    In generale, però, registi e sceneggiatori sembrano incapaci di lavare i panni sporchi mentre si macchiano: si girano a limite film controversi o discutibili, che contengono l’oggi ma sono ambientati a fine anni ’70, ed il resto del panorama italiano è un triste catalogo di scenette di genere, fatte di buoni borghesi in crisi matrimoniale, coppie di architetti nevrotici, belle case, belle azioni.

    Dov‘è la discronia allora? L’inabilità alla descrizione del qui e ora dove e quando nasce? E dove abbiamo perso la capacità di guardarci dentro e trasportare fuori il disagio e l’analisi di come stiamo diventando?

    Che la classe operaia non sia mai andata in paradiso ce lo dicono in molti – ce lo dice anche il volto del tassista-ex-operaio/sindacalizzato nel finale di Signorinaeffe.

    E allora perché non siamo più capaci di andare a scavare lì, dove la classe operaia ha accettato il fallimento di un’idea e la mutazione (genetica) di classe?

  2. Questo articolo mi sarebbe stato davvero d’aiuto quando, nel maggio scorso, discutevo la tesi sul “cinema italiano e la classe operaia”.
    Un argomento molto interessante, che molti studiosi trascurano, questo rapporto tra l’operaio ed il cinema.

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