Presentato nella giornata che la 65ma Mostra del Cinema di Venezia ha dedicato alle morti sul lavoro, esce nelle sale La Fabbrica dei Tedeschi di Mimmo Calopresti legato alla tragedia della notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007 nello stabilimento di Torino della Thyssenkrupp in cui morirono sette operai.

Calopresti costruisce un documentario che scandaglia il vuoto lasciato dalle vittime intervistando i padri, le madri, le mogli e attraverso la loro voce tenta di ricostruire l’identità dei ragazzi, chi erano e quali erano le loro speranze e i loro sogni per il futuro. La macchina da presa scava in profondità i volti dei parenti attraverso molti primi piani, si sofferma sulle fotografie, su tutto ciò che conserva traccia di quelle vite spezzate.

Tutto questo viene preceduto da un prologo iniziale dove, attraverso l’ausilio di Silvio Orlando, bravissimo, Monica Guerritore, Valeria Golino, Luca Lionello e Rosalia Porcaro, il regista ricostruisce l’ultimo saluto delle vittime ai propri cari. In questa scena vediamo parlare solo gli attori, che impersonano i parenti, senza che lo spettatore veda mai il loro interlocutore, quell’interlocutore che sarà destinato a morire; questa assenza e la mancanza di risposta alle loro parole è un presagio che trasforma il saluto in un inconsapevole addio. La scena ha in sé un grande valore simbolico, tuttavia la fiction iniziale rimane a sé stante, poco amalgamata con il resto del documentario e lascia piuttosto perplessi. “I sette morti, dichiara Mimmo Calopresti, ci hanno svegliato dal sogno e ci hanno portato davanti alla realtà: un incubo fatto di pericoli, fuoco, fiamme e lavoratori, operai che ancora oggi mettono a repentaglio la propria vita sul luogo di lavoro. Gli invisibili dell’azienda modello diventano, in una sola notte, tragicamente visibili“. Calopresti tenta dunque di rendere visibile e presente ciò che, purtroppo, non lo è più. Il film ha dunque il grande merito di porre all’attenzione mediatica un tema molto delicato, soprattutto in Italia, dove, al di là dei proclami, poco si continua ancora a fare per evitare che simili fatti (tanti, troppi e molti senza la risonanza della tragedia torinese) non accadano più.

Eppure… eppure una sensazione quasi fastidiosa ha accompagnato la visione del film. Perché? Ci si chiede di fronte alla Fabbrica dei tedeschi con quali modalità il cinema, anche quello non di finzione, debba raccontare la realtà. Il regista sembra preferire un approccio più emotivo che documentaristico alla tragedia. E questo approccio lo porta a realizzare un documentario che più che denunciare le cause che hanno portato al dramma, non sottaciute certo, ma non approfondite, preferisce scavare nel dolore immane e inimmaginabile dei parenti, il che ha a che fare più con la dimensione televisiva che cinematografica. Anche il finale, con le voci in sottofondo della chiamata al 118 da parte di alcuni operai colleghi delle vittime, sembra andare in questa direzione, in un crescendo di pathos che provoca una (giusta) commozione a scapito però della testimonianza documentaristica. E sembra confermare il tutto, il risentimento della madre di una delle vittime che, dopo la proiezione del film a Venezia, ha criticato il regista per aver inserito la voce del figlio che, appena soccorso, esprime tutta la sua disperazione e la paura di morire, tanto che Calopresti è stato costretto, prima dell’uscita nelle sale, ad eliminare quella parte. Dire che Calopresti abbia “cavalcato l’onda” dell’emozione sarebbe totalmente ingiusto nei confronti dell’uomo e del regista, il cui valore è noto; semmai è da rimproverargli il suo indugiare troppo sul dolore, sia pur in buona fede. Da Calopresti ci saremmo aspettati di più.

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