180 minuti mozzafiato di avventura. Non manca niente: un personaggio solitario con un’idea ossessiva da portare a termine a tutti i costi, un viaggio per una fantomatica isola avvolta nelle nebbie del Lontano Oriente, l’incontro/scontro con un universo primordiale dove solo la forza bruta regola i rapporti fra le specie. E non manca, soprattutto, l’incanto terribile di un amore mitologico che annulla la distanza fra i due mondi per poi farli cozzare con il massimo del fragore.

È una delle più belle favole del secolo scorso quella scritta da Edgar Wallace nel 1933 per la RKO e ripresa fedelmente da Jackson per il suo fantasmagorico remake. Il nuovo King Kong è un’adrenalinica sequela di combattimenti, fughe e colpi di scena il cui puntuale susseguirsi crea uno stato di perenne allerta sensoriale, soprattutto per la qualità realistica degli effetti speciali. Una giungla rigurgitante di creature mostruose i cui corpi abnormi sono rappresentati con una resa iperrealistica dei suoni e dei movimenti: è questo a fare di King Kong un’esperienza sensoriale vera e propria, una ridda di emozioni da cui si esce vertiginosamente – e piacevolmente – frastornati.

Ma è proprio la sensazione di aver assistito ad un grande spettacolo popolare, ad un perfetto congegno di meraviglie, a lasciare l’amaro in bocca quando si esaurisce l’impatto emotivo. Una volta attutita l’onda d’urto, infatti, quella vaga sensazione di inadeguatezza serpeggiante durante la visione, può prendere la forma di una malinconica ma precisa considerazione: King Kong è sì un grande sforzo visionario, ma è anche un’operazione irrimediabilmente anacronistica. E non perché sia ambientato negli anni ’30. È proprio la visione del mondo sottesa alla favola ad essere invecchiata: la storia di King Kong presuppone che si possa immaginare all’altro capo del mondo un lembo di terra totalmente inesplorato, un lontano Oriente misterioso e incontaminato che la fantasia degli occidentali è libera di popolare con le creature più improbabili. Oggi invece il mondo, o meglio l’immaginario del mondo, è diventato terribilmente piccolo e privo di mistero. Sarà per il senso di sazietà indotto dai media, sarà per la tanto propagandata globalizzazione che realizza atrocemente il vecchio detto popolare “tutto il mondo è paese”, ma è difficilissimo ormai fantasticare su luoghi e creature radicalmente altri rispetto a quelli che conosciamo. Difficile recuperare l’esotismo, l’attrazione irresistibile verso terre inesplorate che hanno sempre animato i viaggiatori (e gli scrittori) di questa parte del globo e che hanno ispirato in ultima analisi anche King Kong, classico prodotto di una percezione della terra come spazio sconfinato.

Per questo rivederlo oggi, seppur splendidamente vestito a nuovo dalle più sofisticate e avveniristiche tecniche di visualizzazione digitale, può essere un’esperienza rivelatrice: ci mette improvvisamente di fronte, per contrasto, alla mancanza di Orizzonti che caratterizza nei nostri tempi la percezione del globo terracqueo. E rischia di mandare definitivamente in soffitta il sempiterno mito della creatura gigantesca che riemerge dalle profondità dello terra per vendicare la Natura ferita. Un mito di cui King Kong è solo la versione novecentesca.
Forse anche a questa malinconica inattualità si deve il mancato successo planetario dell’ultima fatica di Peter Jackson.

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