Uccidiamo quelli che ci hanno insegnato ad uccidere”. Questa battuta, pronunciata da una delle componenti della “Manson family” in procinto di uccidere le star del cinema e della tv in C’era una volta a  … Hollywood , apre ad una riflessione che accomuna , in una personale visione ravvicinata dei due film, l’ultimo Tarantino e il Joker di Todd Phillips/Joaquin Phoenix. E quello sui cui entrambi fanno riflettere, e  riflettono, è più profondo e ambizioso del livello puramente narrativo e del piacere del racconto, che sia l’ invenzione dell’origine di un personaggio iconico oppure la rielaborazione in chiave pop di fatti realmente accaduti. Si tratta sempre di un Once upon a time … ma la storia e le immagini che la rappresentano , ci pongono in un costante squilibrio tra la posizione di spettatori e quella di individui portati all’interno della zona di confine tra verità e finzione, maschera e rivelazione, straniamento e partecipazione. Partiamo dalla forma: tanto l’incipit di Joker, che quello di C’era una volta …,rimandano graficamente , fin dai titoli di testa,  alla stagione più matura, consapevole e autoriale del cinema americano, anche quello di genere: gli anni ’70 in cui l’entertainment non aveva ancora preso la deriva schizoide di una totale separazione tra forma/intrattenimento e contenuto/impegno, ma esisteva la volontà , anzi la necessità, di disporre le questioni su più piani di lettura:  psicologico, politico, sociale, esistenziale.

Ma quelle questioni scaturivano dall’impatto che l’ormai pluridecennale fruizione dell’immagine cinematografica e , sempre di più, televisiva aveva avuto e continuava ad avere sulla costruzione dell’identità di generazioni di uomini e donne. Da questa prospettiva Charles Manson e Arthur Fleck pre-Joker, si riflettono in maniera speculare l’uno nell’altro : tutti e due con un ‘infanzia caratterizzata dall’abbandono del padre e dall’assenza di una figura maschile di riferimento, con delle madri disfunzionali e malate, e un evidente segno fisico e neurologico del loro disagio (lo sguardo di Manson e la risata di Arthur). E poi c’è l ‘insinuarsi, il montare e, alla fine, l’esplodere dell’ossessione per la celebrità , percezione distorta del bisogno di essere visti e riconosciuti , come se il fatto stesso di esistere dipendesse dallo sguardo dell’altro, anche quello meccanico di una videocamera. Per Manson , nella realtà, l’ambizione, divenuta la sua condanna, di diventare musicista, cavalcando l’onda delle canzoni dei Beach Boys e dell’ America woodstochiana; per Arthur, nella finzione, l’opportunità di esibirsi come stand up comedy nel talk show di Murray Franklin ( chiaramente ispirato alla retorica del grande affabulatore Johnny Carson). Nel film di Tarantino la figura di Manson è appena accennata, e ne vediamo la sua manifestazione attraverso la comunità hippie che gli si era creata intorno, come se ci trovassimo di fronte alle conseguenze generate da una personalità narcistica e psicotica; la rappresentazione di un ego smisurato, penetrato nella carne e nelle ossa di giovani smarriti e ingenui, ma nonostante tutto feroci, figli un ‘epoca che presagiva il crepuscolo e la disillusione nei più lividi e violenti anni ’70, dopo una breve stagione rivoluzionaria nel nome dell’utopia e dell’amore.

In Joker assistiamo invece a tutto il processo di Arthur Fleck, intimo e doloroso nella prima parte, conficcato poi nella seconda, come una scheggia di paura, nel tessuto già in ebollizione di una Gotham spaccata da un classismo opprimente e sfacciato , con il padre del futuro Batman, ricco magnate e politico, che appella come pagliacci i cittadini alla ricerca di anti-leader su cui far confluire la rabbia e la delusione. Una città che, come notato da molti, ricorda tanto la New York tragicamente cupa di Taxi Driver quanto quella grottescamente ridanciana di Re per una notte.
Ma il gioco delle citazioni, che in Tarantino si fa proprio materiale, visto che utilizza trailer , locandine, spezzoni di film e serie tv, in un mix tra ricostruzione e repertorio, con l’immancabile omaggio agli Spaghetti Western e a Sergio Corbucci, in Joker è più legato alla narrazione, talvolta fin troppo costruita tra forzature e ridondanze, e all’aspetto performativo: il monologo di Arthur con la pistola si tocca, nell’immaginario collettivo, con quello di Travis Bickle in Taxi Driver; anche se è l’insegna di un cinema dove trasmettono Blow Out di Brian De Palma a svelarci che ci troviamo nel 1981.

Sarebbe riduttivo comunque fermarsi al quesito più facile, ovvero individuare i riferimenti cinematografici e svelare le identità più superficiali (a chi si ispira questo o quel personaggio?). I quesiti e le identità si riflettono in quest’epoca su degli schermi ancora più frammentati e schizofrenici di quegli degli anni settanta e le rappresentazioni che ne fanno Tarantino e Phillips , seppur in una comunanza di intenzioni, seguono strade diverse: Rick Dalton smarrito nel passaggio da bounty killer tv a villain dei b movie, ritrova se stesso, e si salva , grazie al doppelganger della sua controfigura /guardia del corpo/ autista Cliff Booth;  la scelta di affidare questi due ruoli a Di Caprio e Pitt , divi paralleli sui binari della generazione X, fa proliferare al cubo identificazioni e proiezioni: tutti noi adolescenti degli anni ’90 eravamo saturi delle immagini tra il tormentato, sensibile Leonardo/Rimbaud e il selvaggio, sensuale Brad/Tyler Durden di Fight Club( altro doppio, stavolta dell’irrimediabilmente scisso Ed Norton).

il fatto che siano proprio loro a sventare, nella fantasia tarantiniana , il terribile eccidio della villa di Los Angeles in cui vennero assassinati Sharon Tate , incinta di Roman Polanski, e i suoi ospiti da alcuni membri della banda di Manson, e che questa scampata tragedia venga filmata con lo stile carico dei suoi amatissimi explotation movies , non solo ribadisce il potere romantico e salvifico che Tarantino restituisce all’immaginazione cinefila( chissà cosa avrà provato Roman nel vedere la sua Sharon “sopravvissuta” a quella notte ): Di Caprio/Pitt si fanno unica icona della distanza mitica e della favola , come nella prima immagine in cui sono ripresi in bianco e nero, e al tempo stesso coscienza critica ed elaborazione del “lato oscuro della forza” , per rimanere nel solco di un linguaggio mitologico/hollywoodiano, di cui l’aspirante profeta/musicista Manson è stato il discepolo più deviato e terrificante. Da qui la scelta, discutibile e un po’ facile , di mostrare la Tate come una sorta di angelica figura solare, azzerandone la dimensione umana , se non la vanità di vedere se stessa sullo schermo( tra l’altro la Sharon del film , interpretata da Margot Robbie, va in un cinema dove proiettano un film di arti marziali con la vera Tate).

C’è inoltre la decostruzione della battuta che ha aperto questa riflessione: quella setta di ragazzini perduti, illusi di aver appreso da un piccolo schermo il più estremo dei cattivi insegnamenti, l’omicidio, si ritrovano triturati dentro una centrifuga di immagini di violenza stilizzata; corpi senza più volti , mozzati, bruciati, mutilati e mutati da potenziali carnefici in vittime da operetta pop; Il demiurgo di una tale mattanza non sense  va identificato, ancora prima di Tarantino,  nella parola che viene dopo i puntini di sospensione per ogni nuovo C’era una volta …. prodotto dalla fabbrica bigger than life: Hollywood.
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Arthur Fleck, al contrario , resta da solo , abbandonato da tutto , incluso il suo immaginario: non c’è più creatività o estro nell’invenzione e nella fantasia, ma solo paranoia e alienazione; Il suo corpo ferito, deriso, abusato diventa la forma sopra la quale ogni pulsione viene pervertita e ogni istinto sublimato nella performance , ma non ci sono più reti di salvataggio, confini, passaggi. Tutto precipita nel caos , nessuno si riconosce o riconosce più chi gli è accanto, c’è una sola maschera che non contiene, ma deflagra: il Joker è il Killer, l’allegria è la disperazione, la rovina è il trionfo.
Lo schermo televisivo, simulacro del sistema che incanta e reprime, è un enorme buco nero, un risucchio per i desideri e le frustrazioni, risputati sotto forma di allucinazioni e sogni infranti, esattamente come accadeva in Requiem for dream  di Darren Aronofsky: In quel caso Sarah/ Ellen Burstyn ci proiettava dentro l’aspirazione ad un’immagine di conturbante concorrente per un quiz show a premi, ma le veniva restituita la miserabile versione di una vecchia sfatta e dipendente dalle anfetamine, alla ricerca isterica dei warholiani 15 minuti di fama.

E la biografia (non più solo fummetistca) di Arthur, incapace di trovare il Cliff Booth, la parte solida e compatta, che è in lui, si riduce (o si espande?) nella caricatura al contrario di quella che è convinto essere la sua natura: il clown maldestro e naif si rivela invece , con stupefacente disinvoltura, un efferato e chirurgico assassino.

Phoenix, fratello di quel River bruciato dalla vita troppo presto, che era stato l’anticipatore, più intenso e sensibile ( e quindi fragile), dei Pitt e dei Di Caprio, si spegne e si accende, implode ed esplode, si contrae e prende spazio, camminando sul filo di un istrionismo un po’ compiaciuto , a tratti con autenticità , ma in alcuni momenti sapientemente studiato per ottenere un effetto. C’è maestria, ma ,almeno per il sottoscritto, manca la verità sconvolgente che lasciava intravedere, dietro l’iperbole della malvagità, il Joker di Heath Ledger nel Batman-capolavoro di Christopher Nolan, Il cavaliere oscuro.

Quello sguardo rivolto da Arthur/Joker/Joaquin verso se stesso, così faticoso da sostenere, al punto da buttarlo in mezzo al popolo di Gotham affinché lo erga come occhio deformato e amplificato delle sue
ferite più profonde, è il riflesso/ riflessione che resta dopo i titoli di coda e ci accompagna fuori dalla sala.

Parafrasando la domanda che Clarice poneva ad Hannibal Lecter durante il loro primo incontro ne il silenzio degli innocenti, dopo che lo psichiatra antropofago le aveva rimandato la descrizione di una se stessa vulnerabile e patetica:

Sarò in grado di rivolgere un simile sguardo verso di me ? O magari tutto questo mi fa paura?

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