Il passato in un certo senso è una guida ingannatrice per il futuro: lascia molto meno perplessi.

(Oppenheimer 1948)

Una verità scientifica qualunque è giustificabile proprio perché è tecnicamente dolce, irresistibile (Michelangelo Antonioni)

Soltanto gli americani potranno salvare il mondo dagli U.S.A

(Gore Vidal)

di SALVATORE IERVOLINO/ C’è stata qualche incomprensione “di metodo” sul film storico-biografico Oppenheimer. Sottolineo storico-biografico e quindi di genere, perché il film non va guardato come un grande affresco dell’epoca (quei film alla Novecento) né come racconto del frangersi e rifrangersi di destini individuali nella storia universale (Dottor Zivago) e men che meno si tratta di una riflessione metafisica sulla guerra; piuttosto come un eccellente bignami di storia, e indirettamente uno straordinario stimolatore di domande. Alcune obiezioni al film, come l’assenza totale del punto di vista giapponese o quello delle popolazioni indigene cacciate via da Los Alamos, o la scarsa caratterizzazione e l’assenza di profondità della vita “affettiva” di J.R.Oppenheimer, o anche il suo roosveltismo – o meglio, il vuoto sul passaggio dal suo marxismo romantico a una forma più sobria di democrazia sociale – sono tutto sommato sterili (non inutili) perché l’oggetto è diverso: non una verità totale ma una verità parziale, ossia di come lo scienziato Oppenheimer, insieme ad altri colleghi, siano arrivati, nel loro ambiente più o meno ovattato, fino in fondo per l’atomica; e della persecuzione subita poi dallo scienziato. I tentativi di tradurre nel film quelle pagine dove i biografi Bird e Sherwin, base fedele di tutta la sceneggiatura, tratteggiano il giovane Oppenheimer “fisico e poeta dilettante”, capace di imparare l’italiano in un mese per declamare a voce alta i versi di Dante in pubblico, entusiasta lettore di Gide e Zweig, che s’innamora e che ha nostalgia dei larghi cieli del New Mexico, eccetera: questi tentativi risultano un po’ forzati; e tuttavia è pur vero che qualche momento “culinario”, le scene di letto e di desiderio, e il volto algido e bellissimo di Murphy perduto nella Wastleland era prevedibile in una produzione del genere. Ma tutto questo rileva davvero poco nell’insieme.

In Oppenheimer regna per lo più l’oggettività ed emerge una figura storica la quale – a ragione o a torto – credeva che ogni progresso scientifico fosse irresistibile e andasse perseguito. Una verità scientifica qualunque è giustificabile proprio perché è tecnicamente dolce, irresistibile. Lo pensavano pure Heisenberg e Pascual Jordan, suoi geniali e giovani colleghi negli anni 20 di Gottinga: ma basta leggere le biografie di questi eminenti scienziati per comprendere come il sugo della storia, per i profani, non sia nei libri di fisica o nelle discussioni specialistiche. Sono le scelte e le direzioni di vita di questi uomini che ci interessano, retrospettivamente. Heisenberg avrà rapporti controversi col regime nazista; Pascual Jordan vi aderirà senza riserve, per poi diventare una specie di mistagogo neopositivista.

Crediamo che la bellezza del film sia la messa in luce di questa figura, Robert Oppenheimer, gorgo di contraddizione e intelligenza, che non smette di interrogare il presente, che appare paradossalmente “inattuale”, che sembra uno spettro monumentale su un pianeta dove ormai il progresso tecnico-scientifico, nella sua versione hard (tecnico-militare; amministrativo-controllante), dal Pentagono alla Cina, sembra avere raggiunto risultati inumani: e accanto alla paura di un collasso ambientale ve ne è forse una più subdola: che la vita non conterà più nulla e che gli esseri umani diventeranno delle “funzioni”,  qualcosa di mellifluo e vacuo, e vuoti, uomini vuoti e impagliati, mormoranti cose senza più senso, perché tutto sarà perduto.

La voce di Oppenheimer si staglia sopra quella degli altri per buona parte del film. Il suo dramma senza risposta è il nostro dramma: sarebbe esiziale e puerile un’accusa morale o politica di stampo pacifista-ortodosso, al passato remoto oltretutto. La Storia è tragica. Se non era migliore di altri sul piano intellettuale – ma l’attività scientifica è un lavoro collettivo, e il brain trust di Los Alamos vide Oppenheimer coordinatore prima che ricercatore -, la sua ragionevolezza lo ha situato su vette ben al di sopra del settore specialistico di competenza. Nella raccolta “Scienza e pensiero comune” (14 conferenze, Bollati-Boringhieri) i suoi interventi sono un tentativo di democratizzazione del sapere scientifico senza tuttavia degradarlo a ideologia né a dogma (qui la corrispondenza etica con Einstein e Planck). E’ una continua discesa dal piedistallo. Secondo Oppenheimer, la scienza in definitiva non è un uroboro che divorandosi s’accresce, ma è un “per noi”: e dovrebbe perseguire obbiettivi comuni all’umanità intera senza distinzioni. Citava a tal proposito alcune dichiarazioni illuminate di Roosvelt, suo idolo politico, l’uomo del New Deal e del dialogo con Stalin. Da qui, nonostante fosse disilluso dalle politiche sovietiche, la sua speranza di un accordo di massima sul nucleare con l’URSS, che aleggia per tutto il film e che è storicamente vero. Il suo umanesimo e l’impegno per una coesistenza pacifica, lo sforzo per il controllo atomico mondiale possono commuovere per ingenuità, oggi, perché il realismo è diventato cinismo: ma chi meglio di un uomo perseguitato dagli anni mefitici di Truman e del maccartismo poteva intuire come si stessero evolvendo le cose?

A sinistra col cuore, Oppenheimer: nella conferenza del 48, Chiarezza d’idee, sostiene che è quella sociale, quella della divisione in classi sociali la più invadente delle restrizioni, che non consente uno sviluppo collettivo e ragionevole della mente. E questo, e altre cose che appaiono così vere ai più ragionevoli, non sono affatto scontate per un film che probabilmente supererà il miliardo di dollari di incassi.

Il film, appunto. I difetti tipici del cinema americano in crisi sono ridotti al minimo. La stessa struttura narrativa triadica, a differenza di frivoli giochi postmoderni di decostruzione (cioè tutto il Nolan precedente, la base degli elogi dei fanclub, l’unione del bravo regista con il banale), mi sembra maggiormente funzionale alla comprensione delle vicende: i passi in avanti gettano luce sulle vicende pregresse. Insomma un film di grande storia e non di “meccanismi”, finalmente non pervaso da quella bellezza esclusivamente tecnocratica e da quelle teorie fascistoidi o quel macismo che si palesano (spesso, e spesso esplicitamente) nel cinema hollywoodiano. Le visioni universali dello scienziato in erba, i paesaggi-stati mentali dell’inizio, quelle bombe cristallizzate eccetera ricordano un minimo quel che qualcuno scrisse sul cinema-del-cervello: cosa rara oggi…

Appare quasi un sinistro scherzo dell’industria cinematografica americana, quello di rendere “evento” – e Nolan, va detto anche a denti stretti, suscita ancora clamore di per sé – un film dove Truman viene rappresentato come una specie di paranoico sadico, dove il “mostro sovietico” è in estrema sintesi una costruzione americana, oggi che una guerra viene combattuta in Europa e lo spettro nucleare sembra ritornato.
Ha ragione Paul Schrader a dire che è un film importante, importantissimo, anche al di là del cinema, e a prescindere dal fatto che il regista non sia Rossellini o Hou Hsiao Hsien. “Essi lo fanno ma non sanno di farlo”

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