è un film che continua ad esercitare un fascino immutato nel tempo: passata l’attualità effimera e l’agitazione mediatica del festival di Cannes, l’opera di Bellocchio si presta ad un’osservazione più accurata e distesa che ne conferma il valore estetico e politico.
Hans Hurch, direttore della Viennale, ha voluto offrire al suo pubblico l’opportunità di vedere questo film che non ha trovato una distribuizione in Austria. E’ stato uno degli eventi più importanti della manifestazione (ndr: si è svolta dal 21 ottobre al 3 novembre scorsi) che ha voluto così rendere omaggio al grande maestro del cinema italiano: Marco Bellocchio è venuto a presentare personalmente il suo film di fronte ad una foltissima platea.

Sono stata profondamente scossa da Vincere che con il suo intenso potere evocativo, mi ha toccata intimamente risvegliando in me un fondo di reminiscenze recondite. Il “passato” così come l’ha percepito chi, come me, ha ascoltato la storia di quel periodo oscuro attraverso il racconto di esperienze vissute di prima mano, trova nelle immagini e nei suoni del film una segreta, potente e autentica corrispondenza. E’ dunque con una grande emozione che sono andata all’incontro con Marco Bellocchio: benché visibilmente molto stanco il regista ha accettato, con molta gentilezza, di discutere su alcuni aspetti del suo film.

Vincere riesce a cogliere, a mio avviso, in un modo autentico e giusto tutta un’epoca storica, cruciale per l’Italia, nella sua forma memoriale allucinatoria, nella sua profonda e dolente contraddittorietà, nel suo fascino morboso. Come ha lavorato concretamente su questa dimensione della memoria?

Volevo evitare la classicità di certi film sulla memoria: ho sempre avuto davanti a me lo spettro della fiction televisiva. Non che temessi di caderci dentro ben inteso, ma, in un certo senso, la storia di Ida Dalser che mi affascinava enormemente aveva bisogno di una forma nuova, irregolare che mescolasse quello che io giravo con quello che era già esistente attraverso quel mezzo naturale che è il cinema povero. Facendo una normale ricerca di materiali d’archivio si trovano al novantacinque per cento delle immagini che non sono nuove. Per esempio, per quanto riguarda l’ascesa del fascismo c’è il filmato della Marcia su Roma. Sulle grandi lotte ci sono sempre quelle stesse quattro cose: i fascisti che bruciano le copie dell’Avanti e via dicendo. Proprio per questo motivo abbiamo deciso di lavorare sulla manipolazione di queste immagini nel senso dell’ingrandimento, del rallentamento, dell’uso del dettaglio. Per fortuna poi abbiamo trovato anche alcune immagini relativamente nuove negli archivi a Monaco, come il famoso discorso che Mussolini fece insieme a Hitler che per noi italiani era inedito poiché l’archivio Luce  – che è l’archivio a cui si fa di solito riferimento – non lo possiede. Un’altra sequenza abbastanza inedita è la carrellata su tante madri che allattano: è un’immagine che abbiamo trovato in un documentario fascista. L’abbiamo però rielaborata sovrapponendovi tutta una serie di scritte.

Sul materiale d’archivio è stato effettuato un lavoro volutamente anacronistico con la sovrapposizione di messaggi scritti come era d’uso nei vecchi notiziari cinematografici. Potrebbe parlarmi di questo aspetto del film?

Quando ero studente al Centro  Sperimentale di Cinematografia avevo appreso che la didascalia sovietica non era solo la comunicazione di un concetto, ma che nella sua stessa grafia aveva una sua potenza, “impressionava” anche come messaggio rivoluzionario. Questo è un metodo che ha adottato poi anche il fascismo: noi nel film l’abbiamo riutilizzato in modo arbitrario e libero per tutta una serie di situazioni prendendo delle immagini pre-esistenti e sovrapponendo delle scritte che ritenevamo significanti in quel contesto. Per esempio nella sequenza in cui si vede Mussolini andare nudo di notte al balcone, la scritta GUERRA! GUERRA! GUERRA ! in sovrapposizione l’abbiamo messa per elaborare, da un lato, un linguaggio che richiamasse nello spettatore quell’epoca, ma anche per liberarci da un tipo di racconto cinematografico di stampo classico.

Vincere ha dei colori ed una luce molto particolari – tonalità plumbee, giochi di chiaroscuro – che ben si addicono al soggetto di cui tratta. Quali sono state le sue direttive in questo ambito?

Spesso gli americani, ma non solo loro, quando fanno un film nel passato usano dei toni seppia, manipolano i negativi, oppure si servono della decolorazione. Per quanto mi riguarda nel momento in cui ho proposto a Daniele Ciprì di fare la fotografia – mi ricordavo di quel magnifico bianco e nero di tanti documentari che aveva fatto per la televisione con Maresco – non si è trattato di annullare i colori, ma di dare importanza al nero, quindi a dei contrasti netti e di farne una caratteristica del linguaggio del film. Ricorrendo spesso ad ambientazioni notturne si trattava di accentuare il contrasto perché si lavora essenzialmente – non dico su un nero assoluto – ma su un nero piuttosto cospicuo. In questo contesto si inserisce anche il discorso sullo sfumato e sul “non a fuoco” su cui io peraltro lavoro spesso ma a cui ero anche costretto dal materiale documentario perché quando dovevo ingrandirlo andavo verso uno sfuocato molto accentuato. Non ho voluto ricorrere a dei trucchi per nascondere la finzione ma ho cercato – come nelle scene del manicomio – di fare delle cose in cui tutto quello che può essere definito come un dettaglio realistico o un’accentuazione attraverso dei particolari dell’orrore venisse in qualche modo trascurato o dimenticato. Nelle sequenze del manicomio ho cercato di inglobare dei totali e dei movimenti senza mai soffermarmi su degli elementi raccapriccianti.

Gli spazi nel suo film hanno quel tanto di realismo da attaccarci alla realtà, ma allo stesso tempo sono come trasfigurati: più che degli spazi storici sono degli spazi mentali…

Questo aspetto, almeno nelle intenzioni, c’è: tu scopri uno spazio quando lo occupi e poi cerchi subito di andare oltre quello che è un orientamento realistico, cerchi di capire che cosa in quello spazio è veramente significativo rispetto al racconto che devi fare trascurando tutto il resto. Altrimenti dovresti fare una ricostruzione documentaria, ma – e questa è senza dubbio un’altra difficoltà che bisogna superare quando si vuole lavorare sul passato – ormai non c’è praticamente più nulla di quanto vorresti rappresentare.
Tanto per fare un esempio; l’ospedale di Pergine come edificio esiste ancora ma, a parte il fatto che è stato chiuso, non c’era nulla che noi potessimo utilizzare per i bisogni del film. Nel momento in cui lo ricrei da un’altra parte – noi l’abbiamo ricreato in un vecchio ricovero di Torino per esempio – non puoi, anche per mancanza di mezzi economici, farne una ricostruzione accurata al cento per cento; devi sempre privilegiare qualcosa e trascurare qualcos’altro. Quello che mi aveva colpito molto – e questo la Dalser lo aveva scritto esplicitamente riferendosi all’ospedale di Pergine – è che nell’edificio c’erano dei loggiati
esterni con delle inferriate che li delimitavano per impedire che i malati si buttassero di sotto. Questo è un aspetto che abbiamo completamente ricostruito a Torino in uno spazio apposito.

La colonna sonora è un elemento portante di Vincere, come si è svolta la sua collaborazione con Carlo Crivelli?

In qualche modo mi sembrava che Vincere dovesse essere un film non semplicemente accompagnato qua e là dalla musica, ma dove la musica avesse una presenza quasi costante. Con Carlo abbiamo innanzitutto cercato di lavorare in anticipo; io pensavo che questo film dovesse avere delle note, una musica eseguita da una grande orchestra, cioè da tanti strumenti come quella dei grandi film di Eisenstein, una musica cioè di alta retorica che corrispondesse a quel periodo storico, per questo abbiamo utilizzato anche un frammento di Ottobre. La musica di Crivelli doveva essere una musica da grande orchestra un po’ wagneriana, una combinazione di melodramma e avanguardismo. Poi naturalmente ci sono anche dei brani diversi che non sono stati composti da lui come un pezzo molto importante di Philipp Glass, però il carattere della musica di Vincere è fondamentalmente quello di una melodia trionfante, corrispondente alle masse che si muovono, che vincono, che sovvertono.

Perché ha deciso di fare un film come Vincere proprio in questo momento?

Questo è un mistero nel senso che io non conoscevo la storia di Ida Dalser però quando l’ho scoperta sui giornali sono stato molto coinvolto, molto appassionato; evidentemente per me nella sua vicenda c’era qualche cosa che corrispondeva anche alla situazione storica dell’Italia di oggi. Non è stata però un’operazione calcolata, razionale: io mi sono semplicemente appassionato a questa storia, poi i critici stranieri, ben più che quelli italiani, hanno trovato delle corrispondenze tra Mussolini e Berlusconi e nel personaggio di Ida Dalser quasi la rappresentazione di un’Italia offesa, ferita, vittima di un dittatore.

Perché ha intitolato il film Vincere, visto che il film non tratta di Mussolini, ma di Ida Dalser?

Vincere era uno degli slogan del fascismo che Mussolini ha utilizzato molto spesso; c’era scritto perfino sui muri. Mussolini stesso quando pronunciò la dichiarazione di guerra all’Inghilterra e alla Francia concluse il suo discorso alla folla con queste parole: Vinceremo! A mio avviso il titolo del film è un verbo all’infinito che rappresenta molto bene quell’epoca e poi è una parola che suona bene. Non ci ho fatto su un grande ragionamento; mi sembrava che Vincere come titolo potesse dare un significato non razionale, ma abbastanza profondo alla storia che ho raccontato. Vincere per la memoria italiana è un’esclamazione, uno slogan molto legato al fascismo, però è tuttora un verbo molto usato e, in un modo diverso, corrisponde anche ad un’ideologia moderna di stampo statunitense. Tutti devono vincere nella società odierna che è molto competitiva; chi arriva secondo è un fallito. Questa idea esasperata di essere i primi è ben presente nella società italiana di oggi ma senza quella valenza storica che era propria del periodo fascista. Ovviamente il verbo vincere ha anche un significato positivo quello di aspirare alla vittoria purché questo non sia sinonimo di violenza e di soppressione dell’avversario.

Quali sono stati i momenti di difficoltà che lei ha affrontato nella preparazione di questo film?

Mentre l’attore che avrebbe interpretato Mussolini, Filippo Timi, è stato trovato con una certa facilità, direi che la difficoltà maggiore del film è consistita nel trovare l’attrice per il personaggio di Ida Dalser, ciò è dipeso anche dal fatto che, volendo raccontare trent’anni di vita, ci siamo posti la questione se era opportuno prendere due attrici, lei più giovane e lei più matura, o meno. In un secondo tempo abbiamo scartato quest’idea, perché io credo che un film abbia bisogno di una sua unità. In seguito ci siamo interrogati su che tipo di immagine darle; in questo senso la problematica dell’invecchiamento è stata cruciale. Alla fine abbiamo capito che – proprio perché Ida in fondo come personaggio era sempre la stessa – il suo invecchiamento doveva essere alquanto leggero, meramente accennato.

Nei panni di Ida, Giovanna Mezzogiorno mi ha ricordato molto Alida Valli in Senso. Lei a quali modelli si è ispirato?

Quella dell’attrice è stata veramente una scelta difficile: siamo andati in varie direzioni nel senso che abbiamo fatto dei provini con varie attrici, tutte molto brave, alcune con qualche anno di più, altre con qualche anno di meno, di carnagione chiara con gli occhi chiari oppure più scure. Poi abbiamo scoperto lo sguardo di Giovanna così duro ma al tempo stesso così disponibile alla follia intesa come dedizione totale ad un uomo e devo dire che lei ha corrisposto con grande generosità e con grande disponibilità nell’interpretazione del personaggio.

Quali sono state le soddisfazioni che questo film le ha dato?

Vincere è stato scelto in concorso a Cannes, questo fatto crea delle circostanze molto particolari: da un lato a causa delle aspettative che genera e dall’altro perché tutto si concentra, in fin dei conti, in un unico giorno. Il film è uscito in sala in Italia subito dopo Cannes ricevendo sia da parte del pubblico che da parte della critica italiana una risposta fredda e d’incomprensione, mentre il pubblico e la critica straniera lo hanno accolto con grande entusiasmo. Poi il film – ormai è già passato più di un anno e mezzo – si è come evoluto e c’è stato un crescendo di riconoscimenti. È come se al primo impatto Vincere avesse lasciato in Italia un certo sconcerto, un certo smarrimento, un non volerne parlare troppo poi però col tempo effettivamente il film ha fatto una sua lunghissima strada tant’è vero che siamo ancora qui alla Viennale. Tutto è andato molto, molto bene.

Discussione con Marco Bellocchio su “Vincere” nel Gartenbaukino © Alexander Tuma

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