Un luogo, non è mai un semplice scenario di una storia: pensiamo alla Parigi dei film della Nouvelle Vague o alla Roma di Vacanze romane o dei film di Pasolini o alla New York di Woody Allen, solo per fare alcuni esempi veloci, ma se ne potrebbero fare infiniti altri…

Un luogo è spesso il coprotagonista della storia, è parte importante della geografia del racconto, dei caratteri dei personaggi. In Bruges, la coscienza dell’assassino del quasi esordiente Martin McDonagh (è al suo primo lungometraggio dopo una lunga esperienza teatrale  e un cortometraggio, Six Shooter, che ha vinto nel 2006 l’Oscar per il miglior cortometraggio live-action) si esplicita fin dal titolo la centralità del luogo, protagonista a tutti gli effetti della storia insieme a Ken (Brendan Gleeson) e a Ray (Colin Farrell).

Si entra nella vicenda e si conoscono i personaggi del racconto attraverso la voce fuori campo del giovane Ray, killer di professione, che alla prima missione compie uno sbaglio e che per questo viene mandato in esilio/vacanza a Bruges con il collega Ken dalla lunga esperienza nel campo. Ray è un bravissimo Colin Farrell, lunatico, divertente, sexy e a tratti triste e vulnerabile come un bambino. In questa città medievale, tra vicoli e canali, il giovane si annoia fino a quando non incontra la bella Cloé (Clemence Poesy). Ken, invece che prendere alla lettera gli ordini del boss, fa il turista scrupoloso e acculturato tra chiese e musei trascinando l’annoiato amico (e noi) in un singolare e piacevolissimo tour della cittadina (vista poco sullo schermo, ricordiamo Storia di una monaca di Fred Zinnemann con Audrey Hepburn).

 Nel procedere del film tra commedia dark, un po’ romantica e un po’ sarcastica, sempre politicamente scorretta (supermachi, prostitute, nani razzisti), i due killer si conoscono e legano tra loro – quasi come padre e figlio – fino al sacrificio di uno dei due per la “redenzione” dell’altro. Mentre i due uomini con il procedere della storia, scoprendo qual è il segreto che li lega, che cosa tormenta Ray diventano all’occhio dello spettatore sempre più “umani” e degni di affetto (qual è quello con cui sono tracciati dal regista che ne dipinge luci ed ombre) anche se assassini, così, in un gioco di specchi, la città di Bruges svela via via il suo lato oscuro. La città cartolina dei primi fotogrammi si trasforma in una città gotica, animata sul finale da figure surreali e grottesche che sembrano uscite da un quadro di Bosch: il “dio” tutto terreno di questo particolarissimo giudizio universale è rappresentato dal boss (un gelido Ralph Fiennes) che decide della vita e della morte dei suoi sottoposti, che stabilisce il codice di comportamento, che cosa è giusto fare (uccidere) e cosa non lo è (uccidere un bambino, anche per sbaglio è inammissibile) e che arriva a imporre la sua giustizia a colpi di pistola. Chi vincerà – se qualcuno lo farà –  alla resa dei conti?

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