[***½] – Secondo lungometraggio del cineasta milanese Mirko Locatelli (presentato all’ultimo Festival di Venezia in Concorso nella sezione Orizzonti), Il Primo Giorno d’inverno narra la vicenda di Valerio (Mattia De Gasperis), adolescente estremamente chiuso e solitario, che trascorre le proprie giornate a contemplare il mondo che lo circonda. Questa sua grande introversione lo conduce però troppo facilmente ad essere oggetto di scherno da parte dei suoi coetanei, così il giovane si ritrova diviso tra la volontà di difendere il proprio isolamento e quella di conformarsi nella speranza di essere accettato. La ricerca di un modello a cui tendere, quanto meno fisico, lo porta ad intessere un particolare rapporto con la sua immagine allo specchio, in cui il giovane controlla i risultati dei suoi sforzi. Tuttavia il suo doppio sembra inquietare l’originale; il ragazzo è schivo, quasi imbarazzato di fronte a se stesso, alterna rapide occhiate a curiosi movimenti che possano in qualche modo rassicurarlo. Il suo disagio verso il mondo è evidente in ogni suo gesto, dal tono di voce lamentoso, quasi soffocato, al modo in cui si relaziona con la sorella minore che assomiglia più a quello che si userebbe con un interlocutore immaginario piuttosto che con una persona in carne ed ossa. Ma il destino pare venirgli incontro e giunto a conoscenza di un segreto riguardante i suoi derisori riesce a ricattarli. Solo allora affiorerà in lui l’idea di aver in qualche modo mutato la propria sorte e riuscirà finalmente a guardare occhi negli occhi la sua copia allo specchio;  anche se il tragico finale lascia dei grossi punti interrogativi sull’effettiva trasformazione del protagonista.

Aldilà della storia che potrebbe essere quella di un qualunque adolescente disadattato, quello che colpisce è la forte sensibilità estetica con la quale questa viene mostrata. Lo sguardo del regista si avvicina molto a quello di un pittore: atmosfere fortemente cupe sono accostate da una luce estatica, quasi metafisica. Spesso gli oggetti appaiono come il centro della scena, lasciando i protagonisti nell’ombra. Una forma di formaggio, un pezzo di pane sulla tavola, sembrano prendere vita nel loro iperrealismo; la luce li colpisce quasi facendoli fuoriuscire dall’inquadratura, cosi come avviene nelle tele dei fiamminghi W. Kalf e P. Claesz. Mentre l’oscurità dello sfondo e l’aria che vi si respira ricordano  quella dei Mangiatori di patate di Van Gogh.

Il cineasta milanese indugia con la macchina da presa nella quotidianità della vita, senza tradirla, cercando di ridurre il più possibile l’invasività del montaggio, riuscendo così a far vivere scene che apparentemente non avrebbero grande rilievo. La densità del tempo che passa, spesso uguale, nella sua insignificanza, il rito del pranzo, lo sguardo che segue un pendolo, i rumori della pianura durante il sonno, la ricerca di se stessi in uno specchio, prendono forma divenendo avvenimenti cardine del racconto, in un ritmo estremamente rarefatto ma che allo stesso tempo mantiene sempre vivo l’interesse. Paradossalmente le parti che funzionano meno sono quelle più dinamiche, ma va considerato che si tratta di una piccola produzione indipendente che aveva a disposizione un ridottissimo budget. E si sa che muovere la macchina da presa costa più che tenerla su un cavalletto.

Il giovane cineasta milanese, lontano da forme e tempi del cinema contemporaneo,  sembra ripercorrere le orme della tradizione neorealista italiana, coniugandola, seppur su toni diversi, con una ricerca che sembrava essersi persa coll’espressionismo tedesco, ricordando che il cinema è ancora una forma d’arte. Credo che film come questo pongano domande a cui è assolutamente necessario dare risposte. Paul Valery diceva che “Un’opera d’arte dovrebbe sempre insegnarci che non avevamo visto ciò che vedevamo.” Questo film sembra andare nella stessa direzione, conferendo al cinema quella dignità che oggi va via via sempre più sbiadendo. E allora perché è stato lasciato da solo? Perché è stato totalmente ignorato da produttori e distributori? Forse questo non dovrebbe più sorprendere. Ma va ricordato, perché quest’atteggiamento non diventi più normale di quello che già è.

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