di Fabrizio Croce

“Affida una lacrima al vento
E fa che la porti da me
Il vento mi ha detto sta attento
La tua bella non pensa più a te”

Salvatore Adamo è un raffinato cantautore melodico, italiano di nascita e belga d’adozione, che ha conosciuto fortuna, particolarmente negli anni ’60 , in tutta l’Europa non solo francofona, con delle dolci e struggenti canzoni d’amore capaci di affacciarsi sulla soglia del sentimentalismo più languido senza mai caderci completamente , mantenendo sempre un ‘eleganza , un aplomb nell’interpretazione, nell’attitudine, nel mood. Una voce e uno stile che potrebbero rievocare la sensibilità formale mitteleuropea tradotta nei codici del melo hollywoodiano da Douglas Sirk.
Forse ci saremmo aspettati meno di trovare una simile delicatezza sull’incipit frontale e brutale del nuovo Faith Akin , il regista turco-tedesco che ha segnato , almeno da La sposa turca in poi, in un’immaginario collettivo sempre più vasto , una nuova , più estrema, frontiera di un melodramma contaminato , “infettato” in maniera sempre più esplicita dall’esplosiva condizione sociale di una Germania contemporanea, conflittualmente multi-etnica.
Questa volta Akin va alla ricerca delle radici della miccia direttamente nell’efferato caso di cronaca , quel Fritz Honka, serial killer di prostitute sole, vecchie e alcolizzate, rimorchiate in un patetico e squallido locale, grottescamente battezzato il guanto d’oro, nel quartiere a luci rosse di Amburgo, dall’altrettanto altisonante nome di St Pauli.
E il tono è subito chiaro, e non è certo il vento a sussurrarlo: Honka vive in uno squallido sottotetto, di cui il piano sequenza iniziale ci fa vedere l’angolazione che meglio definisce il senso della storia che sta per essere raccontata, ovvero una porzione della camera da letto, chiusa dall’angusta cornice della porta che la divide dalla camera da pranzo, dove giace il corpo di una donna già morta , su cui quell’omino deforme , imprime il marchio della rabbia e dell’impotenza maschile. Nulla di più d’istante dall’incipit metafisico e simbolico dell’ altro film “d’autore” che in questa stagione ,con il peso delle solite polemiche festivaliere (ma era il Cannes dello scorso anno) si è confrontato con la figura , in questo caso immaginaria , del killer seriale : La casa di Jack , film quantomai fantasma in sala ( chi l’ha visto?) in un certo senso la versione maschile del doppio Nymphomaniac , con i due grossi tabù del maschile e femminile (contemporanei, occidentali, borghesi) messi a tema : il sesso e la violenza . Ah, dimenticavo, in questo caso il nome dell’ “autore”,  e l’identità del serial killer Jack , ma  anche della ninfomane Jo, è sempre lo stesso: Lars Von Tirer.


Akin al contrario non è Honka , e ne prende le distanze portando alle estreme conseguenze una messa in scena che si presenta immediatamente con l’iperrealismo da Grand Guignol , perché come un simile palcoscenico appare la casetta di Fritz, e una caratterizzazione sopra le righe dal punto di vista mimetico, interpretativo e vocale del protagonista Jonas Dassler. Il mostro è performativo nella rappresentazione che ne da Akin , almeno nella prima parte di questo calvario senza redenzione e consolazione, visto che anche una delle poche sopravvissute alla sua furia, un’anziana alcolizzata senza dimora impregnata di tutta la tristezza di cui era capace il sottobosco della periferia metropolitana tedesca negli anni ’70, e probabilmente l’unica con cui riesce a stabilire una (perversa) forma di relazione, è privata di qualsiasi pietas o anche del minimo calore e contatto. È solo il pretesto , con quel fisico strabordante ed evidentemente già segnato e abusato dalla violenza maschile, per una fantasticheria masturbatoria mentale del gretto e animalesco Fritz su una fantomatica figlia della donna dall’evocativo nome di Rosy. Ora , tra i tanti, e più sostanziali, rimandi al cinema di Rainer Werner Fassbinder , il nome di Rosy Rosy, una stralette dell’avanspettacolo bavarese conosciuta come la “supertettona di Monaco” e che sarebbe dovuta apparire in Katzelmacher, è una citazione letterale che Akin traduce in immaginario kitsch , con la fantasia grottesca  che il bruto fa , associando quel nome e la sua attività di macellaia ad un procace ragazzina incontrata il giorno prima. Sembra di assistere ad un fotoromanzo privato della patina e sopraffatto dagli istinti più bassi, c’ è solo compulsione e voracità e i tratti di una disperazione o almeno di un disagio vanno colti nella miseria di un contesto che rimuove, accatasta , nasconde come Fritz che fa a pezzi i cadaveri delle sue vittime anonime e li infila dentro un intercapedine del muro, incolpando poi del tanfo insostenibile gli inquilini greci del piano di sotto ( altro rimando fassbinderiano a Yorgos, l’immigrato greco , anche in quel caso imputato di qualsiasi nefandezza o tensione, sempre in Katzelmacher).
L’insostenibilità non sta quindi tanto nelle pur crude ed esplicite scene di violenza , omicidi e smembramenti, perché la rappresentazione del sadismo , in particolare negli ultimi decenni, dall’horror seriale  americano al cinema autoriale europeo e non solo, ha alzato, e di molto, l’asticella della tollerabilità ( due titoli random: Saw- l’enigmista e Audition di Takeshi Mike). Ciò che lascia sconcertarti , e desolati, è il fatto che nell’efferatezza di Honka c’è un ‘ottusità e un’ostinazione nel voler uccidere che trascendono la frustrazione dovuta all’aspetto ripugnante, all’impotenza, alla fragilità del contesto familiare -abbandonato da una famiglia numerosa, con un padre mandato nei campi di concentramento in quanto comunista- alla dipendenza dall’alcol , che influisce pesantemente sul suo comportamento sociopatico; A tratti sembra che non ci sia spessore umano, inteso come capacità di cercare tenerezza e amore , anche nell’impossibile chiave melo a cui l’esistenza sembra averlo condannato.


E qui andiamo a toccare la “sostanza” di Fassbinder per segnare una demarcazione che però, a mio avviso, è consapevole in Akin: Nel 1973 Rainer aveva prodotto La tenerezza del lupo, esordio dietro la macchina da presa dell’attore Ulli Lommel , che era stato protagonista de L’amore è più freddo della morte, debutto fassbinderiano del 1969.
Il “lupo” del titolo era un altro tragicamente famoso Fritz, quell’ Haarmann assassino seriale di ragazzini di Hannover, sui cui il cinema aveva già lasciato il suo segno indelebile nella trasfigurazione espressionista , e nella lucida analisi tra perversione individuale ed isteria collettiva, di M di Fritz Lang. Lommell e Fassbinder, riproponendo la storia negli anni ’70 ( quelli in cui contemporaneamente si stava muovendo Honka), ne offrono una prospettiva diversa, entrando più nel privato e nell’intimo di un personaggio così socialmente inaccettabile, mostrandone il potere seduttivo e la capacità di attirare a se le vittime del suo insaziabile,carnale desiderio: riusciamo ad intuirne la tenerezza, appunto, e tutto questo rende più disturbante e straniante accettarne le agghiaccianti gesta, in quanto sembra che smembrasse i corpi dei giovani assassinati per venderne la carne alle macellerie.
Sarebbe stato una così brava ed educata persona se non fosse stato un serial killer ….
Il processo inaccettabile di empatia con il mostro dall ‘ interno”e il suo collocamento in una cornice melo ( l’amore “impossibile” che diventa ossessione e follia) non hanno più spazio, tempo e senso , ci dice Akin; sappiamo guardare solo con gli occhi di un orrore di superficie, in un attitudine post moderna , anch’essa ormai stantia, di rimandare a qualcos’altro ,di citare, di decostruite e riformulare . Anche il minimo scarto narrativo, nel momento in cui Honka trova un nuovo lavoro come custode e decide di di smettere di bere, non acquista lo spessore di una possibilità o di un apertura. Honka è condannato, e noi con lui, a vedere quell’unico, nauseabondo , lurido scorcio di camera da letto. Un’ impotenza esposta al cubo: di raccontare, di guardare , di sentire.

“Affida una lacrima al vento
E nel deserto un fiore spunterà
Sarà un miraggio lo sento.
Ma sarebbe bello e ci credo già”

Affidiamo la nostra capacità di credere ancora “nell’intima bontà dell’uomo”, come scriveva Anna Frank, al ritornello di una vecchia canzone melodica.

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