The Survival of Kindness scritto e diretto dall’australiano Rolf de Heer, presentato in concorso alla Berlinale,  inizia in medias res con una scena tanto enigmatica quanto inquietante in cui la cinepresa riprende con una carrellata indietro delle figurine in plastica raffigurati dei soldati con le arme puntate nel cortile di una casa, man mano che la cinepresa retrocede scopriamo sulla superficie sul suolo una serie di figurine di uomini e donne di colore, morti, quando la cinepresa termina il suo percorso scopriamo che tutta questa rappresentazione non era altro che la decorazione di un enorme torta, che viene tagliata, da mani appena visibili nella penombra, per festeggiare l’eccidio perpetrato.

Questa è la porta d’entrata nel mondo distopico creato da Rolf de Heer, un mondo caduto nelle mani di gruppi di potere di uomini bianchi, portatori di maschere antigas, violenti e senza scrupoli, il cui scopo è lo sterminio della popolazione locale, maggioritariamente di colore.

La protagonista del film, definita come Black Woman nei titoli di coda, è una donna sulla quarantina, dai grossi occhi espressivi entra in scena immediatamente dopo questa festa sinistra; catturata di notte dalle milizie, un pugno di uomini che mormorano delle parole inintelligibili in una lingua inesistente, viene messa in una grossa gabbia di ferro e, il giorno dopo, viene abbandonata nel bel mezzo di un deserto, condannata a morire sotto il sole.

The Survival of Kindness, che esplora con grande sensibilità ed inventività i codici del cinema fantastico, ci propone l’odissea della sua protagonista in un mondo potenzialmente futuro, ma talmente prossimo e riconoscibile nel nostro mondo attuale da lasciarci profondamente turbati.

La prima sequenza del film- girato in Tasmania e nel sud dell’Australia- in cui vediamo campeggiare, nel bel mezzo del deserto, una gabbia di ferro con la protagonista imprigionata al suo interno è un vero pezzo di bravura.

La messa in scena alterna molteplici inquadrature, cambiando costantemente angolatura e passando da dei piani larghi, in cui a gabbia si vede minuscola e persa nell’immensità del deserto, a dei primissimi piani in cui il regista si attarda a filmate le formiche sorgono dalla terra del deserto per arrampicarsi sulla gabbia. La cinepresa ne amplifica le dimensioni trasformandole in dei veri mostri che attaccano l’un l’altro e finiscono per sbranarsi a vicenda. Nel frattempo la protagonista guarda impassibile intorno a sé; un giorno passa, un secondo giorno passa finché la donna scopre un pezzo di ferro con il quale, in un modo assolutamente ingegnoso, riesce a svitare una parete della gabbia e a liberarsi.

Nella drammaticità del percorso che la vedremo affrontare, la protagonista si manterrà sempre sveglia, arguta, dotata di un senso pratico e soprattutto di uno sguardo pieno di benevolenza e di compassione per tutti quegli esseri sperduti e derelitti che incocerà durante suo travagliato cammino.

Rolf de Heer riesce a farci sposare subito il punto di vista soggettivo della protagonista, innescando un sapiente meccanismo di identificazione; le sue avventure ci toccano, respiriamo al suo ritmo, scrutiamo con attenzione e timore l’orizzonte seguendo il suo sguardo attendo e sempre all’erta, sussultiamo e tremiamo con lei di fronte ad ogni nuova minaccia.  

La vicenda riesce ad oscillare sapientemente fra elementi realistici e un mondo abbandonato alle forze dell’entropia. The Survival of Kindness si presenta d’acchito come un’opera sorprendente, spiazzandoci con un universo difficile da decifrare mentre gli indizi narrativi ci sono offerti con parsimonia e, ad ogni svolta, la prospettiva di quest’epopea si modifica apportando nuovi elementi e punti di vista inattesi.  

Qualcosa di magico e di miracoloso avvolge il cammino di questa donna coraggiosa e caparbia che con una fiducia innata e un potente istinto di sopravvivenza, si avventura nel deserto cercandone i limiti ed una via di salvezza, senza mangiare senza bere con una tunica stracciata addosso e senza scarpe. Curiosamente ed inavvertitamente la donna raggiungerà una zona ancora desertica ma più verdeggiante. Dappertutto pero s’imbatterà in scene di distruzione e di morte; case semidiroccate ed abbandonate, cadaveri a malapena coperti dalla sabbia del deserto. Ma l’eroina del film è decisa a farcela e sa che per potere continuare a fuggire, deve trovare delle scarpe; prenderà quelle di un cadavere, nel quale s’imbatterà subito agli inizi del suo cammino. Questo elemento in sé anodino, diventerà un tema ricorrente, un filo rosso nel corso del film; le scarpe sono in questo mondo partito alla deriva, un vero valore di scambio. La donna le trova, poi le vengono tolte da un uomo che incrocerà la sua strada e in seguito recupererà altre paia di scarpe, barattandole con una brocca d’acqua, togliendole a degli impiccati, o ai manichini di un museo etnografico in una cittadina abbandonata.

Se da un lato il pericolo si materializza nelle bande di uomini armati di fucili e maschere a gas,

la morte sembra essersi abbattuta sull’umanità anche sotto la forma di una pandemia che causa delle lesioni alla pelle, della tosse ed infine delle emorragie. I malati ed i cadaveri non si contano. Nella sua corsa in avanti verso una meta sconosciuta e forse la salvezza, l’eroina del film, determinata ed impavida, troverà sempre il modo di dare una mano, rivolgere uno sguardo di amicizia e compassione a chi le viene incontro mentre attraversa dei paesaggi sempre più diversi, transitando gradualmente dal deserto a delle zone montagnose ed impervie, attraversando le gole di fiumi fra alte pareti rocciose, passando per boschi e cittadine abbandonate, per giungere infine sulle sponde del mare e di un porto dove un’enorme complesso industriale è custodito da mercenari armati.

In questo lungo periplo di fuga e di pericolo conoscerà un momento di pace e di serenità, sulle sponde di un lago di montagna, dove sosterà brevemente, sorridendo mentre guarda il sole e l’acqua del lago, in un attimo fugace di pienezza e felicità.

Il suo tragitto è immerso in una sorta di realismo magico dove la violenza, il dolore e la morte sono temperate da un delicato senso di autoderisione e da momenti preziosi di vero lirismo.

Intensa e poetica è quella scena cruciale in cui una giovane ragazza esegue, fra le tombe di un cimitero, con i movimenti agili e maestosi di un’arte marziale, una danza che sembra potere scongiurare la morte. Quando, dopo varie vicissitudini, costei contratterà il morbo mortale, l’eroina del film, deciderà di tornare sui suoi passi per condurre la ragazza, ormai in fin di vita, sulle sponde di quel lago dove lei si era sentita, per un’istante, pienamente felice.

In una vicenda in cui il linguaggio è inintelligibile questa l’unica scena in cui sentiremo un vero dialogo fra due personaggi, anche se ognuno di loro parla una lingua che l’altro non comprende.

In un crescendo continuo che culminerà in un finale struggente, il percorso di The Survival of Kindness è quello di un film coraggioso, portato da una messa in scena elegante e minimalista, e dalla performance di Mwajemi Hussein, un film che sa parlarci, attraverso una parabola, dei problemi ben reali del nostro mondo; la violenza, il razzismo, le pandemie e la distruzione dell’ecosistema mettendo in primi piano forse l’unico valore che può salvarci, quello dell’umanità.

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