Ci sono film che valgono per la trama e l’intreccio che sviluppano, altri per la caratterizzazione dei personaggi; altri ancora per il finale. E questo Sarà il mio tipo? e altri discorsi sull’amore di Lucas si iscrive sontuosamente nell’ultimo gruppo.

Quindi vi preparerò al finale, con meditazioni cine-filosofiche come mio inveterato uso ― e come si aspettano alcuni fra voi.

La trama sta un po’ tutta nel titolo di questo articolo, una storia spesso raccontata in Europa. Il professore qui è Clément (Löic Corbery), tipico intellettuale francese medio-borghese, rampollo di buona famiglia, che ha scritto un libriccino pieno di parole su un tema di cui non sa nulla, ma che ha sviluppato con arguzia e sagacia, come è a loro uso: l’amore. Un professorino piacente, che a causa di una ristrutturazione interna del Ministero della Scuola si vede appioppato un anno di insegnamento in contumacia nel liceo di Arras, la città natale del meglio dell’intellighenzia francese. Una sorta di Nouvelle Philosophe in periferia, uno di quei tipetti saccenti coi quali in passato ho avuto bisticci dottrinali, e che il tempo ha avuto la pazienza di dimostrare come avessero infallibilmente torto marcio nel mio caso.

Lo stereotipo dell’intellettualino parigino, che naviga attraverso tutte le feste ed i salotti buoni, dove c’è gente che conta, con l’ansia di non esserci quando accade qualcosa: il presenzialismo fatuo allo stato puro. Il personaggio tipico di Nanni Moretti, quello che conosciamo bene a partire da Io sono un autarchico. Uno che se non sta a Parigi si spegne, muore. E che si noterà di più se non viene, ma purtroppo lui viene sempre.

E’, tanto per dirvela tutta, uno di quegli intellettualini con i quali non ci si dovrebbe mai sedere neppure allo stesso tavolino di un bar per bere un caffè.  Naturalmente, un immaturo emotivo, quindi freddo ed incapace di avere una relazione sanguigna. Ma che superbamente “scrive del” valore sanguigno e carnale delle relazioni. E che piace alle donne, per un po’.

Sottolineo lo “scrive del” per via dell’unica disquisizione filosofica contenuta nel film, nella quale peraltro il professorino soccombe di fronte a lei, la partner di Arras.

E lei chi è? è Jennifer ( Emilie Dequenne), una parrucchiera di provincia, una sorta di omelette di Scarlett Johansson, che bacia tre volte sulle guance quando si accommiata da qualcuno; e non solo due, alla parigina. Un tipetto pieno di vita, talmente pieno che ha già un figlio derivante da precedente relazione. Figlio e relazione che non entrano mai in scena ma restano sullo sfondo, incorniciate in una parentesi.

La storia sta tutta nel dislivello culturale dei due, che sulla carta dovrebbe rendere impossibile la loro relazione, ed invece la motiva. Probabilmente, alle spalle di entrambi (e come legame motivazionale profondo), vi è una enorme solitudine e una inconsistenza di vita, di esistenza. Due vite già vissute da centinaia di migliaia di loro coetanei.

Jennifer non ha studiato, e corre dietro i suoi mille impegni per sbarcare il lunario, ma con la gioia della sorpresa e della esuberanza della vita ingenua. Ma non è sciocca, anche se non riesce a leggere Kant, la Critica del Giudizio. Per la verità, essendo del mestiere, credo che pochi su questo piccolo pianeta l’abbiano capita, ma questo è un altro discorso: la parrucchiere è definita “kantiana” dal professorino Clément, per via del giudizio estetico particolare ed universale. E tanto basta.

Nella trama, i due personaggi ambiscono entrambi alla cosa sbagliata: Clément vuole l’amore ma senza coinvolgimento, senza un rapporto stabile e duraturo, senza il “progetto di vita in comune” (che è sempre l’anticamera del vituperato matrimonio). Jennifer cerca invece (guarda un po’) il Principe Azzurro, il cavaliere che la riconosca fra mille e che la redima dalla sua esistenza nullificata. Che riesca a scorgerne il valore assoluto sotto la sua scorza relativa, e la faccia sua regina, con o senza scarpetta.  Sarà Clément, sarà lui il suo tipo?

Lui pieno di dubbi sull’amore, quei dubbi che diventano il carburante necessario della scrittura forbita. Lei invece ― che quando “sente” l’amore, non ha alcun dubbio, rompe le briglie e ci si getta a capofitto, all’inseguimento. Si, Jennifer è stufa di avventure che non lasciano niente (tranne i pargoli risultanti), vuole l’Amore. Lui invece vuole solo avventure, e niente legami.

Ora, il suo problema è convincerlo ad entrare in un rapporto stabile con lei, a creare quel “progetto di vita” che stabilizza una coppia. In sostanza lei cerca di manipolare lui come probabilmente ha fatto coi suoi precedenti rapporti. E con le armi che ha a sua disposizione, la sensualità e la potenzialità arrapante (cito testualmente). Ma si trattiene per via dell’aura che circonda il raffinatissimo e coltissimo intellettuale.

Lui credo che abbia il problema della noia. Quella di Moravia.

Così vediamo Jennifer nello sforzo sovraumano di leggere astrusi libri filosofici in modo da creare un ponte con Clément, e lui tentare di lasciarsi andare al ballo e al karaoke da Japu-disk, ma niente affatto convinto che sia una buona idea quella di entrare nel dominio avverso che lo vedrebbe perdente soccombere sotto di lei.

Ora, cosa è questa trama? E’ una storia bella, oppure è bello il contenuto che la storia racconta?

Non capite la distinzione, vero? Ma è proprio questo il perno del film, il fulcro motivazionale e l’essenza perfino del rapporto fra Jennifer e Clément.

Un dilemma su cui dal regista allo scrittore si sono subito eccitati, e che deriva da profonde meditazioni di augusti scrittori e letterati francesi, ampiamente citati e riletti nel corso del film.

Per capire questa sottile distinzione non basterebbe una nuova enciclopedia francese. In realtà, come vi saprebbe dimostrare uno studente universitario al primo anno di logica, ma di tradizione anglosassone, non vi è alcuna distinzione. E se non la capite avete perfettamente ragione, non c’è. E’ solo apparenza. Si tratta di un “gioco linguistico”, di nessuna profondità filosofica. Come il paradosso del mentitore di Epimenide Cretese, che trovai riassunto in una orribile scritta fascista su uno scalcinato muro romano, ma “folgorante” per la sua perfezione: “I razzisti sono come i negri, non dovrebbero esistere”: scritta orribilmente razzista ma al contempo razionalmente anti-razzista. Un bel dilemma filosofico? No, una terribile cazzata ― passatemi il francesismo. 

Che è esattamente ciò che il regista sapientemente esibisce nel film: lo svolazzare di personaggi inconsistenti, che ripetono e reiterano una storia già scritta migliaia di volte, con l’illusione che vi sia Coraggio, Amore, Fede, Saggezza, Arguzia perfino in quelle vite, ma che al fondo non ha alcuna consistenza.

E, come nel suo ossessivo Bolero Ravel porta fino alla esasperazione la reiterazione della medesima frase musicale ma con timbriche diverse, così il bravo regista Lucas Balvaux dilata la storia ripetendola solo per il gusto di prepararsi il finale. Un mirabile finale, che lascia il rimbombo dell’ultimo assordante accordo di Ravel a spegnersi nel vuoto.

Saper chiudere un film è un’arte difficile. Ricordo telefonate incandescenti ― e forse anche impertinenti ― di Gillo Pontecorvo a qualche (allora) giovane regista italico, dove tentava di convincerli dell’inutilità degli ultimi 45 minuti della loro pellicola. E si trattava dei migliori, oggi diventati “maestri” della commedia all’italiana. Ma non c’era verso. Ometto i commenti saporiti del grande regista scomparso, una volta azzoppato il telefono in faccia al malcapitato epigono.

Qui, in questo film, i 45 minuti di Gillo diventano invece essenziali. Preparatori. Imprescindibili. Vacui al punto giusto.

Vedere per credere.

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