Tratto dal libro di Marco Nozza, a sua volta ispirato a fatti realmente accaduti, Hotel Meina è stato presentato fuori concorso alla 64° Mostra di Venezia, nell’ambito dell’omaggio che il Festival ha tributato alla pluriennale attività di Carlo Lizzani. Il maestro ritorna ai temi legati al fascismo e all’antifascismo che avevano già segnato il suo esordio di regista cinquant’anni fa con il vibrante Achtung! Banditi, in cui aveva raccontato l’epica resistenza partigiana. In questo film fa un passo indietro, al momento dell’armistizio dell’8 settembre del ‘43, e racconta, con uno sguardo ancora pieno di rabbia e di sdegno, il primo eccidio di ebrei nel nostro paese all’indomani dell’armistizio compiuto da un reparto delle SS naziste, prima ancora che i repubblichini di Salò ne prendessero il posto nel ruolo di violenti e terribili rastrellatori. Coerentemente il film è uscito nelle sale il 25 gennaio a ridosso della giornata della memoria, a testimonianza degli efferati crimini compiuti a danno degli ebrei anche in quell’Italia, che non era Cracovia o Salonicco, ma nella quale pure erano state promulgate le leggi razziali.

È l’8 settembre del ’43 e nell’hotel Meina, situato sulle splendide sponde del lago Maggiore, a pochi chilometri dal confine svizzero, nelle vicinanze di Baveno, Verbania e Stresa, la vita scorre tranquilla e serena, tra gite in barca e tintarelle al sole, lontano dal fragore rumoroso della guerra. L’albergo, gestito da Giorgio Benar ebreo di nazionalità turca (quindi cittadino di un paese neutrale), ospita una ventina di agiati ebrei italiani fuggiti dalla Grecia, che convivono con gli italiani “ariani” in cerca di un’oasi di pace. Quest’atmosfera idilliaca viene interrotta dal fragore dei mezzi del reparto delle SS a seguito del comandante Krassler, che irrompe improvvisamente e sconvolge quell’apparente serenità. Gli ospiti ebrei vengono separati dal resto dei clienti e reclusi al quarto piano dell’albergo, dando inizio ad una situazione connotata da una grande incertezza, in cui non sono chiari i motivi e gli sviluppi della vicenda. La convivenza forzata dà vita a situazioni paradossali, fatte di umiliazioni e stranianti gentilezze, di reclusione e apparente libertà, di tavole imbandite in cui sembrano illusoriamente poter convivere ebrei e tedeschi, di disperazione ed esplosioni improvvise di gioia. Ad aiutarli, invano, ci sarà una tedesca antinazista, Cora Bern, un personaggio inventato e introdotto per ricordare, come dice il regista, tutti quei tedeschi che non vollero piegarsi all’infamia nazista. Ma d’un tratto tutto precipita e ha inizio l’eccidio: gli ebrei vengono ingannati e a piccoli gruppi prelevati dalle loro stanze per essere uccisi meschinamente e gettati nel lago. Soltanto la famiglia dei Benar riuscirà fortuitamente a salvarsi e il film è infatti un lungo flashback della giovane Noa Benar che, a distanza di pochi anni da quei tragici eventi, tornerà sulle rive del lago e rivivrà nel ricordo quella inutile e meschina strage.

Il film riesce a trasmettere pienamente la mancanza di punti di riferimento e la totale incertezza del periodo a ridosso dell’armistizio del ’43. Tutta la prima parte è magnificamente dominata da questo senso di indecisione: gli ebrei non sanno se conviene rimanere o fuggire, pur avendone a un certo punto la possibilità, ma anche gli stessi nazisti inizialmente non sembrano sapere con chiarezza cosa convenga fare. Nel più totale sbandamento, i protagonisti sembrano paralizzati e rimangono immobili in attesa di non si sa bene cosa. Domina un senso di inerzia, in un clima di estrema lentezza, che ad un certo punto viene spazzato via dal precipitare degli eventi. A questo punto Lizzani, nel raccontare la tragedia, ha il merito di non lasciarsi andare al sentimentalismo o agli eccessi spettacolari; le scene finali si succedono l’una all’altra con la precisione meccanica delle fasi di un’operazione chirurgica. Ne deriva però un film puntuale, preciso, corretto, ma eccessivamente schematico, in cui a ogni momento segue correttamente quello successivo, i buoni fanno i buoni e i cattivi fanno i cattivi. Il film non rapisce, non smuove, e, come le operazioni chirurgiche, porta con sé il freddo e il distacco asettico della tavola operatoria: un prodotto ben fatto, da applaudire più come testimonianza a custodia della memoria storica di alto valore sia chiaro), che come opera artistica capace di coinvolgere e scuotere.

Quello che conta, tuttavia, è l’opera di un maestro del cinema che ha attraversato gran parte del nostro secolo, che è ancora, vivaddio, pieno di voglia di esserci e di fare, e che soprattutto ha ancora il coraggio, lui che quegli anni li ha vissuti davvero, di confrontarsi con la nostra Storia più difficile.

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