Giovane regista canadese, la Archambault, già vincitrice in casa nel 2005 di molteplici premi con il film Familia, mai distribuito in Italia, con Gabrielle ci regala un’opera degna di ogni lode, l’architettura di un impegno che viene, tuttavia, sottovalutato nella sua presentazione.

Il film è infatti presentato, attraverso la pubblicità, come una storia d’amore, ma non è solamente questo, pur non negando l’importanza della relazione amorosa tra Gabrielle e Martin, giovanissimi protagonisti. Il loro è infatti un sentimento che germoglia in un contesto dove gli impulsi dovrebbero restare inespressi, ma, alla fine, così non sarà.

Stiamo infatti parlando di un centro di riabilitazione per disabilità mentale, dove Gabrielle, l’attrice Gabrielle Marion Rivard, è – realmente –  affetta da sindrome di Williams, una rara malattia genetica che provoca ritardo intellettivo, un impedimento non necessariamente grave, ma comunque un disturbo. Gabrielle, come la patologia vuole, è anche particolarmente estroversa, oltre che molto dotata musicalmente. Il coro Le Muses de Montreal, dove Gabrielle canta, esiste davvero ed è composto da tutti loro, i ragazzi del centro, nucleo attorno al quale ruotano le emozioni di individui “differenti”.

In ogni scena colpisce immancabilmente l’importanza con la quale la regista trasmette, grazie ad una cinematografia lenta e rigorosa, la massima espressività degli interpreti, l’intensità della mimica e dei gesti, rimarcando le parole semplici, dette e non dette, esaltando i rossori che svelano le persone, interpreti di loro stesse, quasi certamente confuse per la propria “anormalità” – ennesima domanda su cosa sia davvero la normalità! –  ma anche fiere e sbalorditive nel mostrare le debolezze, con naturalezza ed allegria. Per questo motivo, alla fine, possiamo dire che si parla sì di una storia d’amore e delle difficoltà di sperimentarla, ma ci si addentra anche nelle persone, nella contraddizione dei disabili di voler essere adulti, ad esempio anche attraverso la sessualità – che non è necessariamente amore – non sapendo, molto spesso, essere compiuti.

L’inquadratura indugia frequentemente su volti resi imperfetti dagli smarrimenti, intensità che accantonano la tristezza per lasciare spazio alla rivelazione. E le canzoni – sulle strofe di Robert Charlebois, affermato cantautore canadese – che si alzano da voci, in altre evenienze improbabili, non sono difformi da altre. Il gruppo si esprime e si muove, lo fa con grazia e in sinergia, tutti si espongono, appassionati e disinvolti.

Ed è in tanta positività che i sentimenti dei protagonisti e di chi li osserva si rilanciano, dando spazio a trepidazioni più profonde. Nel centro di riabilitazione, in una città dallo spiccato senso civico – che vorremmo fortemente emulabile nel nostro quotidiano nazionale lontano anni luce – i miracoli avvengono con facilità. Ma è proprio fuori dal centro che cadono “gli angeli”, differenti da noi “soggetti normali”. E’ cioè a contatto con la durezza e il conformismo delle nostre vite schermate, tra le maglie dei modelli istituzionalizzati, che tanto ci aggrada costruire per sentirci più forti e sicuri, che loro possono non sopravvivere, o soggiornare con difficoltà.

E così, quando Martin e Gabrielle dichiarano di piacersi, qualcuno, fuori dal centro, inizia a lavorare affinché non avvenga qualcosa di bello e di fortemente temibile al contempo. Due persone disabili non hanno diritto all’amore, ribadiamo, perché così vogliono le regole anche nelle società più evolute; e persino i sentimenti più assoluti, forse perché assoluti – come quelli che albergano nella madre di Martin – restano inadeguati al cospetto dell’attrazione tra Martin e Gabrielle, pura energia di due giovani amanti.

È giusto accanirsi su persone, già di per sé svantaggiate? Quale diritto si ha nell’impedire che gli eventi, come in ogni esistenza, facciano il loro corso? Incisiva, per antitesi quindi, la scena in cui Gabrielle dichiara a Martin, subito dopo il tanto desiderato atto d’amore e sesso, di essere “felice” – d’altro canto ogni tipo di minoranza, ogni “essere difforme” non sembra avere facoltà nemmeno ad una vita lontanamente serena. La colpa della diversità va pagata “per la festa dei normali”. Ma il film della Archambault riscatterà comunque il sentimento.

Poi l’amabile sorella di Gabrielle, Sophie, combattuta tra il compagno da raggiungere, impegnato in un progetto solidale in India, e Gabrielle, altrettanto fragile e bisognosa, tanto come i bambini indiani che attendono; loro così lontani, lei così vicina. È solo una questione di numero e di scelta.

I momenti di angoscia non mancano quando Gabrielle, disperata, parte alla ricerca di Martin, girando tutto il giorno e inutilmente per la città. Ed anche qui sequenze importanti si intrattengono, recidive, sul viso e sul corpo della giovane, ne colgono le stanchezze e le perdizioni, l’incedere incerto e smarrito, la regista toglie l’audio della vita che noi percepiamo, mettendoci in condizione di ascoltare quell’altra di vita, quella che Gabrielle percepisce. Ne afferriamo dunque l’angoscia, un’ansia che cade nel baratro senza speranza, ma che poi si trasforma, durante il volo agli inferi e diviene fiducia, dispiega le ali per riprendere quota e, se necessario, si arrampica di nuovo solo con le unghie. È l’illusione che non muore mai, nel cuore fanciullo dell’essere inadeguato. È la tenacia dell’esistenza che trionfa contro la negligenza umana.

Ma Gabrielle è fortunata, supportata com’è da individui che hanno la giusta chiave di lettura e che sono attenti a cogliere le sfumature, nel rispetto dell’altro. E’ questo che dovremmo fare tutti, mi sono detta, ci vuole pazienza, dobbiamo fermarci ed ascoltare – e questo è al fondo il senso dell’opera.

Non nego di aver provato, nella piccola sala, una perenne commozione: la traduzione delle “loro” emozioni, che noi, normalmente, non riusciamo a ritrovare. Si sa, l’innocenza non ci appartiene più – sostituita d’autorità, magari, dal molto più normalizzante “politicamente corretto” o, forse più semplicemente, persa come si perde il candore quando si acquisisce l’assennatezza. Il film apre alla vita sempre e comunque, ci insegna la normalità attraverso il fastidio che le persone insolite sanno sopportare, ci indica la compostezza, così intesa come coraggio e integrità, nelle esistenze dei meno favoriti, almeno in apparenza. Il merito della pellicola va alla regista, sicuramente, ma anche agli interpreti, laddove Martin è l’unico vero attore – Alexandre Landry -quindi un po’ meno efficace, a differenza degli altri, portatori di handicap. Candidato all’Oscar come film straniero, vincitore del premio del pubblico di Locarno, è un film che lascia un segno ed infonde un’insolita pace interiore.

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2 commenti su “GABRIELLE di Louise Archambault

  1. Brava! hai saputo cogliere le emozioni che il film trasmette. Bisognerebbe pensare più spesso alle difficoltà che hanno le persone fragili nel vivere la vita in tutti i suoi aspetti e quindi anche la sessualità magari l’amore. Difficile, però, è anche stare accanto alle persone fragili sia come genitori che come fratelli, sorelle o altro. La comprensione e l’aiuto andrebbero dati anche a loro ed in questo la società, anche la più evoluta, ha molte mancanze

  2. Come vedi non esiste un canone di normalità! essa è ovunque: nelle persone “insolite”, in quelle “difformi”
    e…….in quelle “diversamente” orientate sessualmente.

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