Dall’11 al 21 febbraio Berlino ha vissuto intensamente al ritmo delle proiezioni della Berlinale. Ieri sera questa 66esima edizione del festival si è conclusa con la tradizionale cerimonia di premiazione al Berlinale Palast.

In sala la tensione si faceva sempre più intensa man mano che i premi venivano annunciati in ordine d’importanza crescente; finalmente Fuocoammare di Gianfranco Rosi é stato annunciato vincitore dell’Orso d’Oro di quest’edizione scatenando l’entusiasmo generale. A giudicare dall’interminabile scroscio di applausi, dai sorrisi e dalle lacrime in sala, la scelta del vincitore sembra avere messo tutti d’accordo.

Il documentario di Rosi su Lampedusa, un’opera formalmente rigorosa, struggente e poetica, umanamente rilevante e di un’attualità politica assoluta, non ha convinto solo la giuria, presieduta da Marilyn Streep, ma ha appassionato gran parte della critica ed ha decisamente commosso e galvanizzato il pubblico della Berlinale.

Si tratta di una vera e propria consacrazione per Gianfranco Rosi che vince di nuovo un grande premio internazionale solo due anni dopo avere ottenuto il Leone d’Oro a Venezia per Sacro Grà.

Nel ricevere il premio dalle mani della presidente della giuria, Gianfranco Rosi, visibilmente commosso, ha chiamato sul palco il dottor Bartolo ed il suo collaboratore lampedusano Peppino, nonché i suoi produttori ed il suo montatore Jacopo Quadri per compartire con loro questo momento di gioia.

Dopo avere ringraziato il festival per avere incluso un documentario nella selezione del concorso internazionale, fatto che già di per sé costituisce una vittoria ai suoi occhi, ha continuato dicendo che i suoi pensieri sono diretti in questo momento a tutti coloro che non sono mai riusciti a raggiungere Lampedusa sulla via del loro percorso di speranza: “Da quasi trent’anni ormai  Lampedusa ha generosamente aperto le sue braccia a tutta la gente che giunge dal mare. Come il dottor Bartolo mi ha spiegato, i Lampedusani sono un popolo di pescatori sempre pronto ad accogliere di buon grado tutto quanto arrivi loro dal mare” . Rosi ha poi aggiunto: “Sembra che gli Europei si siano decisi a discutere seriamente di questo problema ma i primi risultati sono preoccupanti: i muri e le barriere non sono mai serviti ad un granché ed inoltre non sono mai resistiti a lungo… temo che in questo momento le barriere di cui stiamo parlando siano soprattutto delle barriere mentali. Ecco, mi auguro che questo film possa servire a renderci coscienti di tutto questo. Non è accettabile che degli uomini muoiano in mare nel tentativo di sfuggire alle tragedie che li hanno colpiti!”

Se il premio a Fuocoammare é certamente stato dettato dal consenso unanime della giuria per il suo indubbio valore artistico e la portata umanitaria del suo soggetto, il resto del Palmares, alquanto eclettico nel suo insieme, lascia immaginare una serie di decisioni molto meno consensuali.

Risultato di compromessi più o meno felici, gli ulteriori premi sono stati attribuiti  nel modo seguente: l’Orso d’argento, Gran premio della giuria, è stato attribuito a Death in Sarajevo di  Danis Tanovič, (Francia, Bosnia-Erzegovina). Il film di Tanovič e stato premiato anche dalla giuria Fipresci.

Dopo avere vinto nel 2002 l’Oscar per il migliore film straniero per il suo film d’esordio  No man’s land, il regista bosniaco era stato in concorso alla Berlinale con An episode in the life of an iron picker nel 2013 vincendo, per la prima volta, l’Orso d’Argento, un premio che all’epoca aveva provocato lo stupore generale.

Con Death in Sarajevo Tanovič non cambia registro; la sua intenzione di fare un film d’attualità a sfondo politico si esaurisce in un’opera retorica e risolutamente didattica. Il tour de force della cinepresa che segue i vari personaggi nei meandri dell’hotel Europa a Sarajevo, pur facendo prova di virtuosismo, non basta per creare una messa in scena convincente. Death in Sarajevo resta un film piatto e convenzionale, incapace di offrirci delle vere sorprese formali .

Tutto il contrario si può dire invece dell’epos di Lav Diaz, A Lullaby to the sorroful mystery, (Filippine, Singapore),  di una durata di otto ore, che è stato ricompensato con l’Alfred Bauer Preis per un’opera che “apre delle nuove prospettive nell’arte cinematografica” .

Si tratta di un premio, in un certo senso, pertinente se non fosse che Lav Diaz ha una lunga filmografia al suo attivo e che la sua radicalità formale ed il suo inconfondibile  universo  artistico non sono una scoperta di oggi.

Il regista filippino ha dovuto aspettare molti anni prima di vedere uno dei suoi film incluso nel concorso principale di un grande festival; il festival di Locarno, con la sua coraggiosa decisione di mostrare in concorso From what is before nel 2014, ha finalmente rotto un tabù, permettendo a Lav Diaz di vedere la sua opera riconosciuta al suo giusto valore.

Lussureggiante, libero, poetico e profondamente politico il film di Lav Diaz è una vera e propria esperienza sensoriale: A Lullaby to the sorroful mystery, l’opera più complessa e  stimolante di tutto il concorso- ci seduce nei meandri intricati,  violenti e mitici della storia delle Filippine nel 19esimo secolo, epoca della rivoluzione contro il governo coloniale spagnolo, imbarcandoci in un viaggio indimenticabile in quello che è del cinema allo stato puro.

L’Orso d’argento per la migliore regia è stato attribuito a Mia Hansen-Løve per L’avenir (Francia) con Isabelle Huppert nel ruolo della protagonista. Mia Hansen-Løve ha scritto e diretto un film pieno di brio, ironico, scanzonato ed appassionante, senza mai cadere nel cliché di un certo cinema francese intellettualizzante e lezioso. L’avenir, pur giocando finemente dell’uso della parola, è un film d’azione, in costante movimento in cui la protagonista, madre di famiglia e professoressa di filosofia, affronta le molte vicissitudini della sua vita di donna matura con saggezza, humor e una grinta invidiabile.

Quand on a 17 ans del grande André Techiné, (Francia), secondo film francese in competizione é partito, purtroppo, a mani vuote nonostante un plot finemente cesellato  e le ottime prestazioni dei suo eccezionale trio di attori:  Sandrine Kimberlain, Kacey Mottet Klein e Alexis Loret.

United States of love, terzo lungometraggio del giovane regista-sceneggiatore polacco Tomasz Wassilewsky, è stato ricompensato con l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura. In questo dramma tutto declinato al femminile, il regista ci immerge nell’atmosfera ancora cupa, della polonia dell’inizio degli anni 90. La caduta del muro di Berlino, promessa di nuove libertà e di un mondo diverso, non sembra avere cambiato la quotidianità delle quattro eroine che si dibattono invano, in un ambiente opprimente e claustrofobico nel tentativo di realizzare le proprie ossessioni amorose, sprofondando in un abisso ancora più profondo.  Wassilewsky filma usando con maestria una palette di colori scialbi e freddi il dramma esistenziale di questedonne, optando per  un’osservazione inesorabile dei loro gesti ed una grande distanza emotiva che ricorda, per certi versi,  l’approccio  formale di  Haneke.

Una bella sorpresa é stata infine quella della doppia premiazione di Hédi, del regista tunisino Mohammed Ben Attia (Tunisia, Belgio) che ha vinto  l’Orso d’Argento per la migliore opera prima e quello per la migliore interpretazione maschile, attribuita al suo protagonista Majd Mastoura.

Hédi è un film fresco e non pretenzioso che ci offre, nel tono di una commedia agro-dolce, una visione autentica ed originale della gioventù tunisina di oggi  prigioniera  del perenne conflitto fra tradizione e modernità. Il regista segue senza fioriture inutili, utilizzando uno stile pacato, quasi fenomenologico i passi di  Hedi, un giovane uomo, preso fra le convenzioni sociali e le aspettative della sua famiglia, incapace di  trovare il suo vero cammino. Co-prodotto dai fratelli Dardenne, di cui regista adotta il rigore nel descrivere il dilemma personale  e sociale  del suo protagonista, il film ci offre il ritratto credibile e toccante di Hedi, tratteggiando in filigrana anche quello del suo paese senza mai cadere nella caricatura di una sceneggiatura dall’ esito scontato a priori.

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