CONVERSAZIONE CON BONIFACIO ANGIUS

LOCARNO 74

Sette anni dopo il successo di Perfidia, il regista sardo Bonifacio Angius è stato nuovamente invitato al Festival di Locarno con il suo ultimo lungometraggio I Giganti, presentato nel Concorso internazionale della manifestazione.

I Giganti è un film intenso ed inquietante che esplora le conseguenze di cosa significhi appartenere ad un gruppo di uomini e dover rinunciare alle proprie debolezze e al proprio dolore in nome di un’idea preconcetta di mascolinità. Questa storia violenta, piena di rabbia, di frustrazione ma anche di un’incredibile tenerezza, di fragilità, di affetto, di una buona dose di humor nero e di ironia Bonifacio Angius l’ha realizzata dalla A alla Zeta con le proprie mani curandone la regia, la sceneggiatura, la fotografia, il montaggio e la produzione. Suoi complici in questo lavoro lancinante e profondamente toccante sono gli amici-attori che vediamo con lui sullo schermo.  

I Giganti è un film forte, che colpisce come un pugno nello stomaco. Conoscendo il tuo lavoro e la ricchezza emotiva che lo caratterizza nonché il tuo ruolo di attore-regista, risulta evidente che un film così non può che nascere veramente dal cuore. Potresti parlarmi della genesi di questo progetto?

I Giganti è nato come un vero e proprio lampo, con un soggetto scritto diversi anni fa. Era saltato un film grosso, a livello produttivo e narrativo, però non volevamo darci per vinti, non volevamo soccombere e quindi, ad un certo punto, mi sono ricordato di avere questo soggetto. L’abbiamo scritto in quattro settimane e un mese e mezzo dopo stavamo già girando.

Solitamente i tempi di gestazione di un film sono, nel mio caso, veramente lunghi, troppo lunghi direi! Questo è un fatto che influisce considerevolmente sulla riuscita di un film e sulla sua freschezza. In questi casi bisogna sempre cercare di lavorarci su, di tenere il film vivo e di non farlo invecchiare. Una storia magari quando l’hai scritta è soddisfacente, però potrebbe anche stancarti dopo un po’ e potrebbe venirti voglia di raccontare anche altre cose. Quindi devi far sì che l’energia e l’interesse si rinnovino continuamente mettendo in piedi dei meccanismi psicologici, dei piccoli escamotages in modo da tenere sempre viva la fiamma di un progetto.

 Nel caso di I Giganti invece questo non è successo. Il film è stato creato con una libertà espressiva, secondo me, irripetibile: ci siamo rinchiusi con una piccola troupe all’interno di questo paesino e di questa casa che abbiamo scenografo praticamente da zero, perché all’interno di non c’era neanche un cucchiaino e abbiamo iniziato a girare!

In questo tuo film corale ogni figura porta in sé il peso della tragedia, la porta proprio sul suo corpo. Se una tragedia greca si scrivesse oggi, si scriverebbe in questi termini! Sei d’accordo?

Assolutamente si, e esatto! Io ho studiato molto Euripide.  Abbiamo giocato anche con il western però in realtà la radice del western viene dalla tragedia greca… Nel film c’è quest’idea di espiazione della colpa e poi, nel finale, compare una sorta di deus ex machina che fa il punto della situazione. Questo deus ex machina nel film è quasi una divinità che viene calata sulla scena. Direi che il deus ex machina sta proprio nel monologo finale dopo il quale si compie la catastrofe assoluta.

C’è molta anima, c’è molto dolore e c’è molto amore in questo film che è veramente un inno alle donne. Il dolore che provano questi uomini è talmente forte che la storia non può che avere un esito tragico, però questo dolore è essenzialmente connesso all’assenza, alla perdita della donna amata, al fallimento della vita in due.  La catastrofe sorge bruscamente quando questi uomini sono costretti a riconoscere la loro incapacità a costruire un rapporto d’amore.

Si e proprio cosi! La tragedia nasce dalla mancanza della figura femminile nella loro vita, il film è una dichiarazione d’amore alle donne in generale ma è anche una dichiarazione d’amore alla mia compagna! Ad un certo punto del film io mi sgancio completamente dalla storia e decido di fare una dichiarazione d’amore e di dedicare una poesia alla mia compagna. Sono stato assolutamente sincero e quindi quando vado nel nero e dico: “Mentre parlo sento la tua voce che mi parla ancora dal tempo passato, stupida, inutile, dolce..” finisco proprio con la parola dolce perché l’amore può essere tutto, può essere anche stupido e inutile ma poi c’è quella dolcezza, quella cosa inspiegabile, quella attrazione animalesca, quel volersi bene che non si può spiegare con le parole e che supera ogni altra cosa…

A parte qualche breve flash, il film rispetta il canone classico di unità di spazio, tempo e luogo; la casa è in questo contesto, il vero cuore del film. Come hai lavorato all’allestimento, molto suggestivo, di questo luogo?

La casa in cui si svolge il film era una casa storica che pero, nel frattempo, era stata abbandonata ed era diventata praticamente un rudere. Noi l’abbiamo quasi completamente ricostruita. Abbiamo costruito l’estetica del film utilizzando principalmente il mio sguardo proprio su tutto! Tutto quanto si vede sulle pareti della casa, i vari suppellettili, il luccichio che dovevano avere alcuni oggetti, addirittura i tipi di intonaco che dovevano essere usati, li ho scelti tutti io di persona. Poi abbiamo conosciuto una nobildonna che ci ha dato dei quadri ad olio di alcuni arcivescovi, dei quadri antichissimi dal valore inestimabile, che abbiamo utilizzato per arricchire le pareti di questa casa che era una casa nobiliare all’origine, una casa che fu anche teatro della ribellione anti-feudale in Sardegna!

Vorrei farti una domanda sui personaggi: per alcuni di loro, ci sono nel film dei brevi flash back che ci danno un’idea della loro storia personale, del loro passato, altri invece rimangono oscuri e, a parte la loro presenza nella casa, si sa poco o niente di loro. Potresti spiegarmi il perché di questa scelta?

Secondo me se avessimo analizzato alla pari tutti e cinque i personaggi avremmo finito per fare un pastrocchio in cui tutti i caratteri sarebbero stati estremamente spiegati e tutto sarebbe diventato molto più pesante. Il personaggio del politicante, per esempio, è  già delineato con pochi tratti; è un uomo molto superficiale ed irresponsabile che non ha il minimo scrupolo a fare assaggiare il veleno della droga al fratello minore che si è portato dietro. Questo comportamento penso già basti per dire che tipo di uomo sia. Questo fratello minore, il personaggio più giovane della compagnia, invece è quello meno raccontato di tutti e forse è anche il più integro in partenza, però verso la fine della vicenda nel momento in cui perdona il personaggio che interpreto io, scivola anche lui in questo baratro e si sporca a sua volta, perde quella purezza che poteva avere all’inizio. Per quanto riguarda il terzo personaggio meno approfondito della sceneggiatura, l’uomo calvo, tanto per intenderci, quello che porta la droga in casa, a me sembra che abbiamo gli elementi per poterne delineare il carattere, proprio attraverso le sue azioni.

 Le performances del cast sono tutte straordinarie. Come hai lavorato sulla direzione degli attori?

Io lavoro molto con i rapporti umani; metto in contatto tutti attori che sviluppano nel corso del tempo dei rapporti di amicizia e di conoscenza anche molto profonda fra di loro. Parliamo moltissimo di tante cose e di tanti argomenti diversi. Iniziamo a conoscerci già molto bene da prima, ma non parliamo solo del film perché se no diventerebbe estremamente noioso. Per me è veramente molto importante conoscersi, è molto importante creare dei rapporti profondi, sapere come reagisce una persona a seconda di come le parli, che tipo di carattere è, che tipo di temperamento.  Vedo la recitazione come un gioco di rapporti perché per me la recitazione è essenzialmente un gioco di reazioni. Recitare è reagire. Quindi più il mio rapporto con un attore è consolidato, più riesco a capire dove va a parare la scena e la messa in scena.

Durante le riprese avete sempre seguito la sceneggiatura alla lettera o ci sono state anche delle scene d’improvvisazione? 

La sceneggiatura era scritta con ogni dettaglio, l’unico momento in cui abbiamo improvvisato è stato quello della scena risveglio, dove tutti i personaggi ballano e lì, ne avevamo veramente bisogno dell’improvvisazione perché tutti sono completamente sconvolti. Non ti nascondo che per girare questa scena mi sono veramente sbronzato perché volevo ottenere un realismo assoluto quindi ho preso una bottiglia di whisky l’ho tirata giù e poi ho detto: dai, andiamo! Però questo è successo solo per quella scena, (ride) se no, non avrei certamente potuto reggere e fare il film!

Parlavi prima della casa, vorrei ritornare su questo aspetto: il film vive del rapporto dei personaggi in questo spazio limitato in cui i movimenti sono quasi coreografici. Come hai orchestrato tutti questi elementi?

Abbiamo semplicemente costruito il racconto muovendoci all’interno della casa, spostandoci, cercando un ritmo all’interno di quelli che dovevano essere i vari spazi, perché era una casa grande con un salotto ad atrio, poi un salottino più piccolo, una cucina grande, una scala, un corridoio lungo, una camera da letto e un esterno. Questa casa aveva tutta una serie di spazi ma poi, la cosa bella per cui è stata scelta, è che io potevo filmare dalla cucina il salotto, dal salottino il salotto, dalla scala il basso, quindi avevo tutta una serie di possibilità per potere costruire le inquadrature in una maniera totalizzante, presentando la geografia dello spazio in maniera molto precisa. Questo è stato infatti un grande regalo; la casa sembrava come ricostruita in un teatro di prosa perché ci dava la possibilità di giocare a livello prospettico.

La casa immagino abbia determinato in modo essenziale anche la fotografia del film…

 Infatti è stato proprio cosi, la configurazione della casa ci ha permesso di montare l ‘illuminazione in modo da poter essere aggressivi con la luce diretta e con i chiaro-scuri, creando una sensazione quasi Caravaggesca. Il cinema viene dalla pittura, dall’idea alla tela; direi che in questo film siamo vicini al senso letterale del termine cioè allo scrivere con la luce; era proprio quello che cercavamo. Abbiamo fatto una ricerca formale rigorosa, per avvicinarci il più possibile alla perfezione, senza sbavature di colore. Io volevo usare la luce diretta e quindi ho studiato molto Tonino Delli Colli che detestava la luce riflessa. Ho iniziato a leggere e a documentarmi sul come lavorava lui con la luce, per capire alcuni trucchi e cercare di riproporli su questo film dove la luce non è quasi mai riflessa. Abbiamo usato per esempio molte luci zenitali. C’è stata una cura maniacale nel sistema della luce perché, secondo me, anche questo è scrivere, è una parte del racconto.

Ci sono dei momenti molto belli, quasi onirici nel film, che giocano sul grande contrasto creato dalla luce, come quelli in qui lo sguardo di uno dei personaggi scruta l’esterno attraverso una piccola breccia aperta fra i listelli delle persiane e vede defilare una processione sotto il sole…

Noi avevamo sicuramente bisogno di grandi aperture sull’esterno e dovevamo farlo in alcuni momenti ben precisi. Per me un film è come una canzone; deve avere una parte in cui si sviluppa, in cui c’è un crescendo poi un’altra in cui si abbassa in cui, magari, si ferma e poi riparte. Un film per me è anche un po’ come un incontro di box dove due attori prima si studiano a vicenda poi partono con una scarica di cazzotti, poi si fermano, si ristudiano, per ripartire con una fiammata di colpi.

 L’oscurità negli interni è stata dettata anche dalla stagione; d’estate si va sempre a cercare l’oscurità per proteggersi dal calore. Guardando dall’interno verso l’esterno c’è un contrasto fortissimo con questa luminosità abbagliante; il sole risplende violentemente sugli ottoni della banda musicale e sul carro funebre…

Hai immaginato questa scena come una visione o come un fatto reale?

Può essere l’uno o l’altro, ma non e importante saperlo, per me nel film doveva esserci una ricerca ed un rigore formale che potesse andare di pari passo con le azioni…In realtà io faccio molta fatica a parlare del film a parole e ne vado anche orgoglioso perché secondo me questo racconto poteva essere fatto ed espresso solo con il cinema e non avrebbe mai potuto essere un racconto letterario, per esserlo avrebbe dovuto avere delle caratteristiche completamente diverse.

L’uso della musica nel film è particolarmente suggestivo; spesso mostri da vicino il gesto di mettere un disco nel giradischi e scegli anche un tipo di melodia molto particolare in contrasto completo con quanto sta succedendo nella casa…

Nella sceneggiatura era previsto che in questa casa ci fosse un giradischi e anche una vecchia collezione di vinili appartenuti ai genitori del padrone di casa. Tutto ciò non viene raccontato ma viene dato per scontato nel film. La collezione che avevano i genitori immaginari del padrone di casa era composta da vecchi bolero degli anni 40, da musica sudamericana, da dei Cha cha cha, ma anche da dischi di pop americano ed inglese degli anni Sessanta e poi anche da degli LP di cantautori. Nella colonna sonora abbiamo quindi ripercorso la strada del Bolero, del Cha cha cha, del Mambo, del pop anni sessanta americano e inglese, del cantautorato della scuola genovese. Siccome volevamo avere un controllo totale sulla musica, non volevamo usare brani di repertorio per cui abbiamo scritto tutto un disco nuovo. I pezzi in spagnolo li ho scritti io e li ho musicati io! Ho scritto anche i brani di bolero, di mambo e il Cha, cha, cha divertendomi moltissimo perché questo è un gioco meraviglioso per me! Per renderli però veramente autentici li abbiamo fatti eseguire da dei musicisti ad hoc. Per il bolero abbiamo ingaggiato dei musicisti cubani e abbiamo fatto suonare loro dei brani arrangiati dal nostro compositore, Luigi Frassetto. I brani pop inglesi li abbiamo invece fatti registrare a Londra perché dovevano essere autentici. Credo che uscirà il disco del film. Vedo già il vinile con il poster del film! (ride)

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