Le colpe dei padri ricadranno sui figli… mi sono sempre chiesto se questo tetro, assolutista e iniquo monito biblico potesse essere rovesciato in forma positiva, trasformando le colpe in “meriti”.

I meriti dei padri ricadranno sui figli?

È stato un po’ partendo da questo interrogativo, in un senso più leggero e scherzoso rispetto al determinismo senza via d’uscita dell’altro, che mi sono posto alla visione dell’opera seconda di non uno, ma ben due figli di cotanto padre: Jozef e Michal Skolimowski sono i figli di Jerzy, il cineasta polacco che ha infiammato in particolare il già irrequieto cinema europeo a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70, con il suo sguardo libero, anarchico, beffardo e sentimentale al tempo stesso attraverso cui raccontava la società repressiva ed alienante nel contrasto con le profonde inquietudini esistenziali, le ossessioni e i desideri, o meglio i desideri che si trasformano in ossessioni, dei suoi personaggi.

Questa tensione continua nel far emergere l’intreccio tra il livello psichico, mentale e la parte più emotiva, istintuale, ponendoci continuamente di fronte all’immagine del “Cannibale che usa la forchetta” utilizzata ironicamente dallo scrittore e filosofo suo conterraneo Stanislaw J. Lec per chiedersi cosa sia il progresso, crea nel cinema di Skolimowski un corto circuito continuo tra quello che vediamo e quello che crediamo di vedere, tra i piani del reale, dell’immaginazione, del sogno. Tutto convive su uno stesso asse percettivo e si smarrisce l’orientamento, si discende letteralmente e metaforicamente (anche qui un piano si sovrappone e si sostituisce all’altro senza soluzione di continuità) dentro l’antro buio di menti offuscate e illuminate dalla luce di un’emotività distorta e alterata, dove anche l’aspetto sentimentale si confonde con il male di vivere se non proprio con una follia autodistruttiva.

In questo caso opera emblematica e disturbante, in equilibrio tra l’horror psicologico, la parabola esistenziale e la deformazione grottesca (tre elementi a cui sicuramente non è estranea la collaborazione come sceneggiatore con Roman Polanski), è L’Australiano, dove un uomo che sostiene di aver acquisito la facoltà di uccidere con l’urlo dagli aborigeni australiani, sconvolge il già precario equilibrio di una giovane coppia: una storia raccontata dallo stesso protagonista all’interno dell’emblematico contesto di una clinica psichiatrica, tra leggenda e sogno.

I meriti dei padri ricadranno sui figli?

Curiosamente, facendo questo rapidissimo excursus sul cinema di Jerzy, mi sembra di aver toccato in parte alcuni nodi determinanti per Ixjana, quest’opera seconda di Josef e Michal… Il cannibale che usa la forchetta in questo caso si chiama Marek, uno scrittore di romanzi  fantasyhorror con il corpo atletico di qualche bel giovane attore hollywoodiano e con l’espressione del volto che ricorda vagamente Jean Pierre Léaud (che per papà Jerzy interpretò il vergine), dunque già un grottesco rimando ambulante a due idee di cinema diametralmente opposte, l’eroe americano e il tormentato esistenziale europeo.

Ora dovremmo dire della trama, ma la cosa risulta particolarmente ostica perchè mentre nei film di papà Jerzy, anche quelli che si spingono nei territori più deliranti, nel confine più estremo dell’irrazionale, c’è una controllatissima struttura che contiene e anzi crea un efficace contrasto con gli elementi più paradossali e assurdi, Josef e Michal, indecisi tra astrazione intellettuale e concretezza fisica e materiale della rappresentazione (altro topos del cinema polacco), costruiscono un cervellotico plot dove il contenitore in cui potersi orientare è rappresentato da una festa in maschera organizzata in una villa in mezzo ad un bosco (topos delle fiabe) dall’eccentrico editore di Marek.

Qui si dovrebbe consumare apparentemente l’omicidio di Arthur, il migliore amico del protagonista, compiuto, forse, dallo stesso Marek che diventa poi il narratore della sua storia e che ricostruisce gli avvenimenti antecedenti e successivi al fatto, mescolando realtà, sogno, senso di colpa, desiderio, pulsione di morte, corruzione e aspirazione ad una purezza dove solo l’amore sembra poter avere un potere salvifico e redentore, ma che viene smascherato nelle sue sembianze angeliche per rivelarsi solo dipendenza, inganno, manipolazione.

E anche il (s)oggetto del desiderio che sta alla base del conflitto tra Marek e Arthur, la misteriosa Marlena, da una parte intenso, struggente corpo d’amore e dall’altra creatura immaginata e plasmata dalla fantasia di Marek, disorienta in continuazione: dark lady dell’esistenzialismo che ci traghetta dal sogno all’incubo, dalla speranza all’impotenza, fino al discutibile fatalismo dell’interminabile finale che contraddice la chiave psicanalitica ed onirica con cui sembrava fosse stata interpretata la vicenda.

Dunque se l’assunto con cui sono andato a vedere Ixjana era sicuramente sbagliato, in realtà il peso del cineasta Skolimowski è assolutamente presente nel dna dei due figli registi, ma correggendo i moralistici termini  “meriti” e “colpe”  in pregi e difetti, a prevalere è un meccanismo difettoso, faticoso da seguire anche come puro piacere del gioco della narrazione a scatole cinesi, tralasciando l’irritazione del dover interpretare simboli astrusi e decifrabili solo dalla mente degli autori, che però non aprono a nessuna suggestione e non muovono nessuna emozione (come invece avviene negli alti modelli a cui questo tipo di cinema aspira, David Lynch in testa).

Desolato per l’improprio paragone con il celebrato genitore, mi permetterei però di consigliare a Josef e Michal che se vogliono far vedere un cannibale che usa la forchetta, non c’è bisogno di sottolineare che si tratta di un cannibale che usa la forchetta, perchè l’immaginazione a volte può rivelare molto di più della comprensione razionale.

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