Il 18 marzo si è inaugurata a Parigi la 32ma edizione del Cinéma du réel, un appuntamento internazionale imprescindibile per il documentario. Durante dodici giorni un pubblico entusiasta e sempre più numeroso invade le sale del Centre Pompidou, sede storica della manifestazione, per prendere parte a questo evento stimolante e conviviale, autentico laboratorio di riflessione e di dialogo.

Un uomo capovolge un tavolo, gli attacca un motore e parte in mare senza bagagli: con l’immagine del trailer del festival, il Cinéma du réel ci propone un viaggio avventuroso ed appassionante verso nuovi orizzonti formali, mondi lontani, universi mentali inesplorati. Fedele alla linea tracciata nella scorsa edizione la programmazione abbraccia una molteplicità di proposizioni diverse, libera dagli schemi riduttivi di una focalizzazione geografica, aprendo lo spazio della nostra visione ad una lettura trasversale che avanza per associazioni, rimandi, seguendo tracce eterogenee e multiformi. Principio inderogabile della selezione resta sempre il rispetto dell’altro, una postura etica che esclude a priori ogni atteggiamento meramente sensazionalista o voyeuristico e si impegna a garantire la dignità della persona filmata.

Il Cinéma du réel ci presenta quest’anno una grande panoramica della produzione più recente divisa in tre sezioni competitive: “Concorso internazionale”, “Panorama francese” e “Primi film” – una novità di quest’edizione – attraverso 48 film provenienti da una ventina di paesi differenti. Il programma è completato da una serie di retrospettive tematiche che esplorano vari aspetti della creazione documentaria e da una sezione di approfondimento e confronto diretto con alcuni cineasti emblematici del nostro tempo.

Il compito di dirigere la manifestazione è affidato, per il secondo anno, a Javier Packer y Comyn. Entusiasta, dinamico, pronto a sconvolgere status quo e idee preconcette, Javier Packer y Comyn ha fatto soffiare un salutare vento di rinnovamento sul festival. In mezzo alla frenesia che lo circonda in questi giorni ha simpaticamente accettato di rispondere alle nostre domande.

Nel programma di quest’anno ritroviamo delle costanti: l’idea, molto bella, di presentare la selezione attraverso l’immagine di una nuova cartografia del mondo documentario e la sezione retrospettiva dedicata alle forme sperimentali curata da Nicole Brenez. Quali sono le novità di quest’edizione?
L’anno scorso ho voluto ampliare il numero di film in competizione per  mostrare una più grande varietà di quanto viene prodotto in questo momento e di quanto ritengo sia da difendere nel mondo del documentario, ma mi sono reso conto che era un lavoro eccessivo per una giuria; ho dunque inaugurato una nuova sezione dedicata ai primi e secondi film. Questa sezione è importante perché ci offre la possibilità di mettere l’accento sulla grande diversità che si può incontrare nelle opere prime: una diversità di scrittura, di formati, di durata, di origine, di soggetto, di approccio, ma anche di modi di produzione. Per me questa nuova sezione è una specie di vivaio della giovane creazione documentaria, la trovo particolarmente stimolante soprattutto perché una parte di questa produzione si spinge verso i limiti, le frange dell’espressione formale, verso dei territori nuovi molto interessanti da esplorare.

Quali sono  i criteri  che l’hanno guidata nella selezione dei film?
Il rapporto etico fra chi filma e chi è filmato è per me qualcosa di fondamentale, su questo punto sono intransigente. Se sento che la persona filmata è stata presa in ostaggio dal film sono incapace di trovare il mio posto come spettatore. I film che presentiamo sono dei film sui rapporti umani che senza rinunciare ad uno sguardo critico e indagatore instaurano una relazione giusta e rispettosa con le persone filmate. Nel contesto attuale del mondo delle immagini ritengo sia particolarmente importante insistere sul rispetto nei rapporti umani; di fronte ad un certo tipo di produzione documentaria che tende a diventare una sorta di zoo, di bestiario umano, bisogna reagire. In questo senso invitare qualcuno come Albert Maysels e riscoprire la sua opera mi sembra particolarmente significativo. Maysels è sempre stato dalla parte di chi è ripreso perché crede nell’altro e nelle sue qualità umane, il suo lavoro è di una giustezza straordinaria. La concezione generale del programma del festival è animata da uno stesso spirito che crea dei rimandi e rinvia da un film all’altro: la sezione curata da Nicole Brenez, “Exploring documentary”, dedicata quest’anno al pamphlet visuale costituisce un tragitto parallelo. Amo molto il tipo di approccio di Nicole Brenez che affronta questa tematica focalizzando la sua attenzione sulla problematica della forma. Il Pamphlet visuale si definisce attraverso una costante rimessa in questione delle forme. Mostrando una quarantina di opere, dal 1926 fino ad oggi, questa sezione esplora come la ‘forma’ possa agire sul mondo e come d’altronde si possa resistere ad una ‘forma dominante’.

Nella programmazione della competizione internazionale il festival rinuncia, in maniera quasi programmatica, alla clausola dell’esclusività. Cosa ha motivato questa scelta?
Questa politica non è cambiata improvvisamente col mio arrivo ma è stata, diciamo, riconfermata. Il Cinéma du Réel non ha mai voluto partecipare alla corsa per la prima mondiale, internazionale, europea o nazionale. Rinunciare alla clausola di esclusività è il minimo che si possa fare nei confronti dei registi; non bisogna dimenticare che è il festival ad essere al servizio dei film e non il contrario. Penso che le cose stiano cambiando lentamente in questo senso per la buona ragione che i cineasti stessi sono pronti ormai a difendere questo punto di vista. Detto questo, la problematica dell’esclusività riguarda solo una piccola parte dei film in concorso; non si tratta dunque di mettere in piedi un festival di cose già viste altrove, si tratta semplicemente di un cambio di mentalità rispetto ai film. Io non me la sento di bloccare un film, diciamo per sei mesi, per avere l’esclusività della prima visione; questo non è, ai miei occhi, il modo corretto per accoglierlo. Ogni esclusività è controproduttiva per il film. Noi siamo dalla parte dei cineasti e spesso questo atteggiamento viene riconosciuto ed apprezzato dagli stessi che decidono, proprio perché sanno di essere rispettati, di mostrare i loro lavori in anteprima al Cinéma du Réel.

Quali sono i punti forti dell’edizione 2010?
Ovviamente ci sono molte cose interessanti, mi limiterò a citarne solo alcune. La rassegna “Nous deux” ci permette di abbordare, discutere e sviluppare la questione della creazione a due e di sondarne la chimica segreta; più che stabilire una sorta di tipologia del lavoro a quattro mani o di analizzare la divisione dei compiti all’interno della coppia vorremmo rimontare il filo misterioso della collaborazione fra due cineasti per i quali il lavoro comune si fonde in un’unità intangibile. Partendo da opere cinematografiche ben precise come Dal polo all’equatore di Angela Ricci Lucci e Yervant Gianikian, Operai contadini d
i Jean Marie Straub e Danièle Huillet o The old place e Reportage amateur di Jean Luc Godard e Anne-Marie Miéville, mi interessava mostrare il cinema attraverso questa forma di dialogo privilegiato in cui due persone generano una sorta di terza istanza che è la vera sorgente creativa del film. All’interno della sezione “Nous deux” ci sono delle proiezioni che mi stanno particolarmente a cuore come quella del documentario Kashima Paradise di Yann Le Masson e Bénédicte Deswarte.  E’ un opera che merita di essere scoperta  e che verrà mostrata per la prima volta nella sua versione originaria, rimasta nel cassetto per anni a causa di un problema di laboratorio. Un altro aspetto del programma a cui tengo particolarmente sono gli omaggi, le “dediche” che abbiamo cercato di ampliare associando alla retrospettiva cinematografica una serie di interventi-master class dei registi. Gli eventi più importanti di questa sezione sono quelli dedicati ad Albert Maysels e a Guò Xiaolù. La “dedica” a Maysels, figura emblematica del cinema diretto americano,  ci offre l’occasione di rivedere i suoi film più famosi come Salesman e Grey Gardens co-realizzati con suo fratello Davis, ma anche di scoprire delle opere importanti ed inedite come Opening Moscow, girato con Pennbacker e Clark. Guò Xiaolù è una regista cinese che vive in Inghilterra e che ha raggiunto una notorietà internazionale vincendo l’anno scorso il festival di Locarno. M’interessava raggruppare i diversi aspetti del suo universo creativo che spazia dal cinema, al romanzo e alla poesia per la grande coerenza che l’artista riesce a mantenere nella sua opera pur passando da un mezzo espressivo all’altro.
In questa sezione sono presenti anche due cineasti ai quali non abbiamo dedicato un programma completo: Michel Khleifi, un regista palestinese che da trent’anni a questa parte  filma con uno sguardo acuto e pieno di forza le ferite e l’identità del suo popolo e  Marcel Hanoun che è, accanto a Godard, una delle figure più radicalmente innovative del cinema francese. La Cinématheque française gli dedicherà prossimamente una retrospettiva completa. Noi abbiamo voluto abbordare, in una sorta di preludio a questa manifestazione, la sua creazione documentaria.

Cosa simbolizza per lei il trailer del festival?

Under discussion opera di due artisti sudamericani, Jennifer Allora e Guillermo Calzadilla, ci mostra un uomo su un’imbarcazione di fortuna fatta con una tavola rovesciata alla quale è stato aggiunto un motore.  L’anno scorso il simbolo del festival era l’immagine di un edificio che crollava davanti ai nostri occhi creando un enorme cumulo di maceri. Il trailer di quest’anno è una maniera per dire: “Ma cosa stiamo aspettando per ricostruire? Abbiamo degli utensili di cui possiamo servirci, cambiandone la funzione originaria, per creare qualcosa di nuovo, d’inedito.”
L’idea di utilizzare tutti i mezzi a disposizione per lanciarsi nei propri progetti ha in sé qualcosa di esaltante, di dinamico: si può così utilizzare un tavolo per fare una barca, avanzare, partire lontano. Si tratta evidentemente di una metafora del lavoro dei documentaristi che operano, nella stragrande maggioranza, con dei mezzi assai limitati cercando di cavarsela come meglio possono, in quest’immagine c’è anche l’idea dell’esilio artistico.

Nel programma del festival lei evoca delle difficoltà di finanziamento, me ne potrebbe parlare?

Fortunatamente la Francia è un paese che dispone di molteplici possibilità di finanziamento a diversi livelli, il che significa che quando uno sponsor istituzionale non è più in grado di sostenerci nella stessa misura di prima è possibile trovare delle  alternative e compensare le perdite senza indebolire troppo la manifestazione. A causa della crisi ci sono stati dei partner che non hanno potuto confermare subito il loro appoggio finanziario, ma per fortuna ne sono subentrati altri. Evidentemente non esiste nessun direttore di festival pronto a lamentarsi per avere troppi soldi a disposizione! Per noi comunque è importante sapere che queste difficoltà sono dovute alla crisi economica e non alla qualità del nostro lavoro.

Cosa si augura per l’edizione di quest’anno?

Mi auguro evidentemente molti spettatori, ma soprattutto molte opportunità di scambio e delle belle proiezioni. Il documentario è una forma cinematografica che ha veramente bisogno di essere mostrata in sala proprio perché di solito è visibile solo sullo schermo assai limitato dei nostri televisori. Ogni volta, dopo avere presentato un film, vorrei sempre restare in sala per il piacere di rivederlo su un grande schermo… Robert Kramer diceva a questo proposito che l’evento cinematografico inizia nel momento in cui la persona sullo schermo è più grande di noi. Nel momento in cui le proporzioni vacillano qualcosa di nuovo si instaura, questo “qualcosa” è un elemento fondatore nel cinema, ne sono profondamente convinto ed è per questo che quest’anno ho voluto selezionare i film guardandoli su un grande schermo. Pre-selezionare i film su uno schermo di televisione avrebbe cancellato in molti casi una grande parte del lavoro dei cineasti e ciò sarebbe stato un vero peccato.

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