Alyah di Elie Wajemann presentato alla Quinzaine des Réalisateurs e Les voisins de Dieu di Meni Yaesh presentato alla Semaine della critique, entrambi candidati alla Camera d’or, costruiscono un dittico assai contrastante ma non privo di interesse su Israele, un paese visto e sognato da lontano nel primo, vissuto e sofferto da vicino nel secondo.

I due film rispecchiano la generazione dei loro registi, tutti e due sulla trentina, e sono nutriti da un fondo di elementi autobiografici che, pur essendo ben amalgamati alla finzione, conferiscono alle storie raccontate freschezza ed autenticità.

Alyah è ambientato a Parigi dove Alex, un ragazzo ebreo-francese alla deriva, vuole  prendere finalmente la sua vita in mano;  Les voisins de dieu si svolge a Bat Yam e segue il percorso di Avi, un giovane uomo perso fra l’ardore della sua fede e le tentazioni dell’estremismo religioso.

Alyah e Les voisins de Dieu sono due film sull’identità, sul divenire adulti,  sull’amicizia e sulla necessità di liberarsi da coloro che, col passare degli anni e malgrado loro, hanno finito per  diventare dei pesi morti. I due protagonisti, passando dalla prima giovinezza con i suoi codici ed i suoi riti di gruppo, ad una spesso difficile ricerca della propria via, dovranno fare delle scelte dolorose ma necessarie. Alyah ci trasporta nel cuore di una piccola comunità di ebrei  assimilati a Parigi. Alex, dealer di marijuana a tempo perso, é un ragazzo tormentato che cerca se stesso. Per andare avanti deve trovare la forza di affrancarsi da una serie di relazioni che gli sbarrano il passo; in primo luogo da quella con suo fratello maggiore Isaac che, dopo averlo protetto al momento della separazione dei loro genitori, é diventato col tempo completamente dipendente da lui, e poi da quella con un giro di amici che, come Mathias,  sono connessi al mondo dello spaccio. Alex vuole emanciparsi da tutto ciò e passare alla tappa seguente della sua vita ma lo fa optando per una fuga in avanti. Molto indicativa é, in questo senso, la sua non-relazione con Israele, un paese di cui conosce, in fin dei conti poco o niente, un luogo lontano e brumoso che non ha mai risvegliato in lui la ben che minima curiosità e che, di colpo, si trasforma letteralmente in terra promessa.

Nato e cresciuto in Francia, pur seguendo blandamente alcuni riti religiosi in occasione delle riunioni di famiglia, Alex è tutt’altro che un ebreo osservante. Il suo interesse per Israele non nasce da un vero bisogno interiore ma é un semplice pretesto per cambiare vita. I suoi preparativi vengono assolti esattamente per quello che sono: delle pure formalità, che siano i documenti richiesti dall’ambasciata per stabilire il suo certificato di “giudaicità” o i goffi tentativi che intraprende per imparare la lingua con l’aiuto di audio-cassette o attraverso un corso accelerato che gli propizia a malincuore la sua ex, Esther.  Dopo molte avventure rischiose e nonostante il dolore che gli provoca lasciarsi dietro Jeanne, la ragazza di cui si è, proprio all’ultimo momento, follemente innamorato, Alex riesce a raggiungere Israele ma, ancora una volta, sembra essere finito in un luogo alieno. Nell’ultima scena del film, in una rappresentazione astratta ed esangue del mondo che lo circonda, il regista ci mostra Alex finire la sua giornata di lavoro solo, guardando fuori dalla finestra di un appartamento incassato, come un loculo, nel fitto tessuto edilizio di Tel Aviv.

Elie Wajemann appartiene lui stesso alla comunità ebraica francese; allievo della Femis mette in scena un regista famoso come Cedric Cahn – Isaac nel film – suo professore alla prestigiosa scuola parigina, nonché un cast composto da un gruppo di giovani attori molto promettenti come Pio Marmaï, sensibile e torturato nel ruolo di Alex, Adèle Haenel solare e smaliziata in quello di Jeanne e Guillaume Gouix, nella  breve ma intensa parte di Mathias. Presentando Alyah sul palco della Quinzaine  Wajemenn lo ha giustamente definito come un film corale.

La pellicola avrebbe, in principio, tutte le carte in regola. Sulle orme del suo determinato e melanconico protagonista Alyah scorre con fluidità e piacevolezza ma la storia che ci racconta non riesce a coinvolgerci pienamente. Le passioni, i sentimenti, il dolore, così come pure la gioia sono abbozzati e restano in superficie lasciandoci come una sensazione di vuoto; Alyah é un film ben costruito, ma eccessivamente liscio in cui si percepisce un gesto creativo più mentale  che emotivo.

Eppure la materia di cui tratta avrebbe potuto offrire un ottimo punto di partenza:  la pecca di questa pellicola che ha, nonostante tutto, molta grazia, risiede nel non avere approfondito sufficientemente la psicologia dei  personaggi. Pur attraversando dei  momenti di crisi tutti sembrano guardare la loro vita con un fare alieno, come da lontano: i problemi che li preoccupano vengono meramente  accennati e poi lasciati, forse volutamente, in un’indefinitezza assoluta. Ermetici ed in fondo assai solitari i protagonisti di questa vicenda s’incrociano senza veramente toccarsi: perfino l’atto di grande amicizia di cui fa prova Mathias nei confronti di Alex sorprende, certo,  ma resta poco credibile. Più elegia poetica che studio sociale di un milieu Alyah ci riserva, comunque, delle sequenze preziose. La scena d’addio, intima ed amaramente spigliata, fra il protagonista e la sua amata al tavolino di un caffè parigino fa parte di questi bei momenti.

Cannes_2012_God's_NeighborsLes Voisins de dieu di Meni Yaesh ci offre un’immersione totale nella vita di un quartiere popolare di Bat Yam, una piccola città in Israele. Avi, il protagonista della vicenda, Kobi e Yaniv sono tre amici inseparabili; tutti  sulla trentina e ancora scapoli abitano e lavorano nella stessa zona. Avi vive solo con suo padre e lo aiuta nella sua bottega di frutta e verdura, Yaniv é impiegato di un negozio che vende animali, Kobi va in giro a fare propaganda religiosa. Ogni sera s’incontrano sulla terrazza del caffé dell’angolo dove giocano per ore a back-gammon  discutendo ininterrottamente di tutto e di niente, nei pomeriggi liberi si sfogano giocando a basket. Ebrei ortodossi, i tre frequentano assiduamente le classi del rabbino locale, Avi compone inoltre sul suo computer degli inni- rap che fanno furore nel circondario. Zelanti al limite della violenza Avi, Kobi e Yainiv si sono auto-eletti guardiani delle regole religiose e morali nel quartiere terrorizzando chi sgarra con delle azioni punitive spesso brutali. L’abbigliamento delle donne, il rispetto del silenzio notturno, il riposo assoluto dello shabbath e le incursioni in macchina degli arabi di Jaffa nella zona fanno parte dei loro obiettivi privilegiati. Miri, una ragazza appena sbarcata nel circondario, attira, con le sue tenute giudicate troppo sexy, l’attenzione dei tre. Decisi ad impartirle una buona lezione i nostri eroi partono in missione se non fosse che, nel corso di questo infausto incontro, Avi s’innamora di lei. Un timido idillio nasce fra i due che cercano di avvicinarsi e di adattarsi l’uno all’altro facendo delle concessioni reciproche: Miri, si vestirà con più decenza e Avi inizierà a riflettere seriamente sul suo comportamento violento. Questa svolta lo porterà a cambiare abitudini. Lo sc
ontro con i suoi amici sarà inevitabile. Combattuto fra un principio di solidarietà di gruppo ed il rispetto della vita umana, Avi dovrà fare alla fine una scelta etica radicale che marcherà la sua vita per sempre.

Les Voisins de dieu é film corposo che traspira la vita reale, fortemente ancorato nel vissuto, caloroso, appassionato e vibrante, dove gioie sofferenze si sentono reali e palpabili. Con il ritmo gioioso di una screwball comedy e l’energia di un film d’azione Les Voisins de dieu riesce a toccare con giustezza delle tematiche assai profonde come il nostro rapporto con la fede, il libero arbitrio e la responsabilità etica delle nostre scelte. Accompagnato dalla banda sonora di un rap delirante Les voisins de dieu ci trascina con forza nel suo universo: un piccolo territorio dove tutto si gioca intorno ad un paio di strade e di negozi. Il caffé, la pizzeria, il fruttivendolo, il parrucchiere e il tempio sono i punti cardinali di questo microcosmo. Il film si rivela essere un eccellente studio di milieu, caustico, attento ai dettagli con dei dialoghi molto divertenti, vivaci, pieni d’arguzia.

Davanti alla macchina da presa di Meni Yaesh, i vari caratteri del film diventano dei personaggi in carne ed ossa. Avi è – come ha spiegato il regista a Cannes – il suo alter ego nella pellicola. Questo personaggio é nato da una grande complicità di Yaesh con l’attore Roy Assaf (Avi), con cui aveva già girato dei cortometraggi in passato; tutta la gestualità di Avi ricalca i suoi propri gesti, il suo modo di fare. Se la sceneggiatura é stata scritta in soli sei mesi – Meni Yaesh si é servito per darle polpa di molti dialoghi autentici fra lui ed i suoi amici – il lavoro con il cast si é protratto per un anno intero. In fase di preparazione, il regista ha portato i suoi protagonisti a Bat Yam per far conoscere loro il suo quartiere e il suo entourage di prima mano.

Yahesh definisce la sua pellicola come un vero mélange di generi ed un omaggio ai film d’azione con cui é cresciuto: dai capolavori di Scorsese o di Coppola ai film di serie B come quelli di Bruce Lee, Jean Claude Van Damme o Bruce Willis.

Les voisins de Dieu è una pellicola popolare, divertente ma pur sempre profonda, con un cast di attori in gran forma; una scommessa riuscita, in fin dei conti, per questo film in cui si parla molto del sorriso che, come ci insegnano allegramente i chassidim sullo schermo, dovremmo avere sempre sulle nostre labbra!

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