In linea di massima detesto lo sguardo in macchina, e al contempo ne sono straordinariamente affascinato.
Ingmar Bergman, che lo sperimentò per primo, ne fece «l’inquadratura più triste della storia del cinema». Godard (a cui si deve il virgolettato) lo usò a sua volta come gesto eversivo, infrazione a una delle regole auree della messa in scena codificate dall’odiato cinéma de papa. In seguito ci furono Samuel Beckett via Buster Keaton (Film), un Bellocchio dimenticato (Salto nel vuoto) e più di recente Haneke (Funny Games), ma per lo più lo sguardo in macchina è stato ormai svilito e privato del suo potenziale di destabilizzazione dell’esperienza della visione: usato regolarmente, a mia conoscenza e memoria, come mero espediente furbetto di un cinema che cerca la complicità dello spettatore attraverso una scorciatoia perché incapace di costruire un autentico rapporto con lo sguardo altrui. L’equivalente di un occhiolino in un rituale di corteggiamento.
Perciò, quando a due terzi circa di C’era una volta in Anatolia il personaggio di Cemal, il dottore, praticamente braccato dalla mdp, guarda in camera per pochi lunghissimi secondi, compiendo uno sforzo smisurato per sostenere il nostro sguardo, in quel momento ho provato un sussulto. Perché per il modo in cui è costruita la sequenza (essenziale, muta, priva di ammiccamenti, fortemente empatica), ma ancor di più per come il film ci ha portato fin lì, diviene chiaro in quel momento, attraverso quello sguardo, che il dottore, in lotta con la propria coscienza, sta accettando di assumersi il carico morale, forse la colpa, della sua vita e di quelle degli altri personaggi. Una sequenza potente ed emozionante, che segna non a caso il punto di svolta dell’opera sesta del turco Nuri Bilge Ceylan.
Fino a lì si era assistito al girovagare in auto, su e giù nel cuore della steppa dell’Anatolia, di un gruppo di uomini impegnato nella ricerca di un cadavere: un procuratore, un ispettore di polizia con i suoi agenti, un medico legale, un militare e infine un assassino, reo confesso, deputato a condurre la piccola comitiva nel luogo dove il corpo è sepolto. Il viaggio, racchiuso tra un tramonto e un’alba, è l’occasione per questi uomini di conoscersi e intrecciare rapporti, il focus si sposta agilmente e quasi distrattamente da uno all’altro. Ci offrono frammenti delle loro vite. Fanno sosta per rifocillarsi in un villaggio sperduto dove manca la corrente elettrica ma non l’ospitalità, poi ripartono. Senza fretta.
C’è un cinema che ha paura del tempo, e allora lo insegue affannato, lo combatte e lo violenta, lo contrae fino a rendere l’esperienza della visione istantanea, quasi nulla; un cinema – letteralmente – di consumo immediato. Tutto all’opposto si colloca l’approccio di N.B. Ceylan, cineasta estremo che sin dai tempi di Uzak (Gran Premio della Giuria a Cannes 2003) aveva mostrato di sapere bene che nessuna profonda verità che abbia a che fare con l’umano può scaturire se non attraverso la durata. Nelle quasi due ore e quaranta di C’era una volta in Anatolia (stesso premio cannense di Uzak nel 2011) succede poco. I dialoghi, fitti, riguardano spesso la più banale quotidianità; le azioni compiute dai personaggi sono volutamente svuotate di senso: la carovana si muove senza costrutto, fermandosi meccanicamente ogni volta che sembra sul punto di venir fuori il cadavere, e altrettanto meccanicamente ripartendo. Un’ironia sottile avvolge la scena, eppure vi è una tensione invisibile che cresce nelle pieghe delle immagini, facendo montare la sensazione indefinita che qualcosa stia per accadere da un momento all’altro. Non qualcosa che abbia a che fare con l’azione, piuttosto ci si aspetta il determinarsi di maturazioni lungamente covate, la rivelazione improvvisa di verità note solo all’anima.
D’altra parte non è nella risoluzione di un caso investigativo che va cercato il senso profondo di C’era una volta in Anatolia (non a caso la dinamica e il movente dell’omicidio rimarranno in larga parte oscuri), ma piuttosto nelle interrogazioni sul senso della vita che i personaggi, sia apertamente che nel silenzio delle proprie coscienze, si rivolgono a vicenda. La litania noiosa delle incombenze burocratiche attorno al cadavere finalmente ritrovato, viene filmata da Ceylan ossessivamente, fino allo sfinimento, e posta in geniale contrapposizione con la tensione morale che lacera il film. Tutti i personaggi hanno una colpa sepolta, un’anima appesantita dalla vita e ora, per motivi ignoti, sembra arrivato il momento della verità. Alle loro spalle incombe un paesaggio apparentemente indifferente, immerso in un chiarore che non è mai luce ma nemmeno totale oscurità, che pian piano si afferma, diviene personaggio, dà fiato a un vento che ulula di disperazione. L’insistenza su un aneddoto apparentemente ininfluente, uno sguardo che si perde nella contemplazione o nel racconto e si lascia bagnare da una lacrima, un movimento di macchina inatteso che scopre su di un volto un’esitazione epifanica; ecco la poetica di Ceylan. E basta che vada via la luce per far apparire i fantasmi.
Non un «thriller etico», nemmeno un «noir dell’anima». Scoprire all’improvviso che il soggetto di C’era una volta in Anatolia è la vita stessa è un’emozione profonda e rara. Lo sguardo in macchina, appunto. Perché il cinema di Ceylan non si accontenta di stare dentro i limiti del quadro, non si basta a se stesso ma guarda fuori e oltre, in cerca della vita: ecco perché ci ri-guarda intensamente.

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