Rachid Bouchareb, francese di origine algerina, poco noto al pubblico italiano è un regista ampiamente riconosciuto e stimato in Francia: il suo primo grande successo, Little Senegal, di cui era protagonista Sotigui Koyaté, risale al 2000, ma la sua vera consacrazione è arrivata nel 2006 con Indigénes una produzione colossale sui combattenti “magrebini” nell’esercito francese che ha vinto un premio collettivo di interpretazione maschile al festival di Cannes. In London River, suo ultimo film presentato in concorso alla Berlinale, il regista ci narra la storia di un’amicizia fra due persone molto diverse, accomunate da uno stesso tragico destino. Partendo da un fatto di cronaca politica, Bouchareb crea un’elegia delicata, malinconica, piena di calore umano, illuminata dal gioco di due grandi attori: Brenda Blethyn e Sotigui Koyaté.

Il 7 luglio 2005, giorno degli attentati terroristi a Londra che hanno fatto 56 morti e più di 700 feriti, mi trovavo in vacanza: la notizia degli eventi mi è giunta ascoltando una conversazione fortuita. Non dimenticherò mai i minuti che ho vissuto in seguito; la mia corsa verso una cabina telefonica, i tentativi disperati di raggiungere il mio compagno che viveva a Londra e che prendeva ogni mattina proprio quella stessa linea di metro per andare al lavoro. La mia storia finisce bene, quella di Elisabeth e Ousmane, i due protagonsti di London River, in attesa di notizie dei loro figli rispettivi ha un esito drammatico. Rachid Bouchareb ci racconta nel suo film questo “dopo”; l’attesa, la ricerca disperata di notizie, di tracce, di qualche informazione, le corse nei commissariati, le visite negli ospedali presso i capezzali di feriti che si avverano essere degli estranei. Il film ci parla dell’ansia, della lotta, dell’impegno di questi due genitori alla ricerca dei loro figli, ma anche della fiducia che tutto possa andare a finire bene, che si tratti semplicemente di un malinteso, di uno sbaglio. Rachid Bouchareb sa mostrarci bene questo oscillare costante fra delusione e speranza, pessimismo e voglia di credere, nonostante tutto, in un miracolo, in un finale felice. Il regista ha voluto immaginare l’incontro fra due persone e due culture distinte per farci vedere come, di fronte al dolore, le differenze diventino assolutamente insignificanti. Elisabeth è una cinquantenne inglese, protestante, che vive sull’isola di Guernsey e si occupa della sua fattoria. Ousmane è un anziano africano, mussulmano, che vive e lavora da anni come guardia forestale in Francia. I due si recano a Londra per cercare i loro figli rispettivi: Jane ed Ali che non hanno più dato segni di vita dal giorno dell’attentato in poi. Elisabeth e Ousmane sono due sconosciuti che ignorano l’uno l’esistenza dell’altro. Come fare in modo che possano incontrarsi a loro volta nella grande città e apprendere che i loro figli formavano una coppia e vivevano insieme? Le sequenze dedicate a risolvere questo “dilemma” sono un po’macchinose, si sente lo stratagemma, la forzatura della sceneggiatura, ma questo difetto viene presto dimenticato di fronte alla finezza e all’umanità con cui l’incontro ci viene descritto. Elisabeth affronta Ousmane dapprima con timore e diffidenza, lo tiene a distanza, lo sospetta e si rifiuta di farlo entrare nell’appartamento che sua figlia Jane aveva condiviso con Alì.

Nel corso della loro epopea i due impareranno a conoscersi, a rispettarsi, a condividere la loro pena. Bouchareb sa seguire con la sua cinepresa tutta l’odissea interiore dei suoi protagonisti con affetto e sensibilità, riuscendo a mantenere sempre il giusto tono e soprattutto la giusta distanza. Le sue inquadrature non sono mai inutilmente invadenti o aggressive ma riflettono una sensazione di rispetto e di pudore per il dolore altrui. Anche il ritmo del film sa seguire, passo a passo, le ricerche dei due genitori, senza mai creare delle accelerazioni inutili, accompagnando la loro traiettoria lenta ed ostinata, tappa per tappa, in un tempo di attesa indefinita che sembra allungarsi ogni giorno di più. London River è un film a piccolo budget finanziato da Arte e pensato all’origine come telefilm; proprio questa circostanza ha lasciato al regista una maggiore libertà, permettendogli di concentrarsi sul gioco degli attori, come ha spiegato lui stesso alla stampa. La sceneggiatura e perfino i dialoghi sembrano diventare accessori di fronte alle interpretazioni di Brenda Blethyn e di Sotigui Koyaté. La bellezza del film si rivela pienamente in quelle sequenze senza parole che ci mostrano i volti di questi due personaggi, i loro gesti, la loro maniera di muoversi in un’erranza piena di speranza e di timore per le strade della città. Quanta pena e quanta dignità c’è nel semplice camminare di Sotigui Koyaté, appoggiato al suo bastone, ma dritto e fiero, con una tristezza infinita negli occhi, o nel volto teso, rassegnato o a tratti sorridente e luminoso di Brenda Blethyn. I due attori portano in sè ed esprimono con una semplicità ed un’immediatezza disarmante tutto l’amore e il dolore per i loro figli. Sotigui Koyaté è stato premiato a giusto titolo con l’Orso d’argento per la sua interpretazione. Indimenticabili sono le ultime sequenze del film, quelle in cui Elisabeth e Ousmane apprendono di avere perduto i loro figli: senza cedere nulla al melodramma, i due attori ci commuovono profondamente, rendendo palpabile la disperazione nell’intensità dei loro sguardi, nella frenesia controllata dei loro corpi. London River ci dà un’autentica lezione di dignità umana. Alla Berlinale il film é stato accolto con un enorme applauso finale.

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