Era il 2007, anno di uscita di Centochiodi – un improbabile Raz Degan nella parte dell’intellettuale in crisi spirituale – quando Olmi dichiarava l’intenzione di abbandonare il cinema di finzione per tornare a occuparsi unicamente della sua originaria passione documentaristica.
Non conosciamo le ragioni intime del vecchio maestro, ma ci permettiamo di fare delle supposizioni. Possiamo immaginare la volontà di prendere le distanze dal cinema di finzione italiano di oggi, incapace d’incidere sulle contraddizioni del presente, atrofizzato nello standard televisivo e orfano della passata portata di spregiudicatezza, ferocia, gaiezza. Forse non è casuale invece che la scelta di campo di Olmi, si manifesti in una stagione di grande vitalità per il genere documentario, che si guadagna finalmente, quantunque a fatica, il diritto all’uscita nei tradizionali circuiti di sala, ottenendo un certo riscontro di pubblico. Fatti impensabili fino soltanto a pochi anni fa.

Salutiamo così con rispetto il ritorno del grande regista al mezzo espressivo che gli è più congeniale. Un terreno, quello del genere documentario, popolato da tanti giovani cineasti di talento, messi nelle condizioni di lavorare grazie anche alla diffusione delle tecnologie di produzione low-budget (Senza voler far torto ad altri, citiamo: Gianfranco Pannone, Vittorio Moroni, Alina Marazzi, Pietro Marcello, Esmeralda Calabria, Davide Gaglianone, fino al recente esordio di Alberto Fasulo, autore del notevole Rumore Bianco, forse tra i più “olmiani” dell’ultima generazione).
Del resto talune metodologie produttive – la scelta di lavorare con attori non professionisti, l’adozione del dialetto come genuina espressione di popolo al posto dell’Italiano normalizzato della rai-tv, l’uso della camera a mano, di troupe leggere e della presa diretta, in una declinazione personale e intimista di camerà-stylo – hanno caratterizzato in senso documentaristico le opere di finzione più riuscite di Olmi, a cominciare da quell’Albero degli zoccoli che gli valse la Palma d’Oro a Cannes.

Il regista, cattolico irrequieto, poeta della dignità del lavoro umano e della sacralità del rapporto con la natura, viene insomma da un altro mondo, è uomo antico ben oltre la sua età anagrafica. Allo stesso tempo, come un sapiente orientale, è capace di interpretare la contemporaneità al di là delle contingenze, di parlare ai giovani e trasmettere conoscenza, anche attraverso l’istituzione della “non scuola” IpotesI Cinema, di cui è fondatore. Nel solco della migliore lezione neorealista di Rossellini, compagno di strada artistico di Pasolini e De Seta, Ermanno Olmi ha saputo cogliere e tematizzare come pochi altri nel suo cinema le lacerazioni profonde inferte sul corpo sociale dell’Italia del secondo dopoguerra, un Paese strappato all’ethos arcaico e immobile della civiltà contadina tradizionale e catapultato nell’arco di due decenni alla liquidità complessa della società dello spettacolo, dei consumi di massa.
Di fronte alla scelta tra la fascinazione antropologica postmodernista per l’homo consumens, individuo-massa programmato in laboratorio e indotto al bisogno compulsivo, e l’ostinazione laboriosa del contadino, attaccato a null’altro che alla terra, rispettoso dei suoi frutti e dei suoi cicli immutabili, il regista non ha dubbi. Si schiera con quell’ultimo dei mohicani, in sintonia con l’irriducibilità di uno stile di vita controcorrente rispetto alle traiettorie ad alta velocità e a banda larga del tardo capitalismo. 
 In ciò la poetica di Olmi ha anticipato e scavalcato, radicalizzandone persino talune conclusioni, i teorici della decrescita, i sostenitori di un’economia incentrata sulla sostenibilità ambientale.  Un no-global ante litteram si direbbe, seppur estraneo al campo ideologico post-marxista in cui il movimento di critica alla globalizzazione ha messo radici, che nel corso del suo cammino non poteva non incrociare la strada di coloro che – comunità di campesinos, gruppi Slow Food sparsi nel mondo, attivisti ecopolitici alla Vandana Shiva – si battono per l’agrobiodiversità, contro la politica di sfruttamento esasperato e criminale delle risorse del pianeta.

crive Olmi sul pressbook di Terra Madre: “Il primo appunto che Carlo Petrini (Fondatore di Slow Food e tra gli ispiratori del progetto, n.d.r.) mi ha inviato, è del 1° luglio 2006. E dice: ‘questo sarà un film politico e preveggente per far conoscere a tutti coloro che ancora non sanno, quegli esempi positivi che le Comunità di contadini di tutto il mondo e i Presidi Slow Food mostreranno nel corso del grande raduno Terra Madre 2006 a Torino’. E io naturalmente ero fra coloro del nostro tempo che non conoscevano la solidale unione d’intenti testimoniato in questo raduno mondiale tra tutte le Genti contadine. […] Al Forum di Terra Madre ho riconosciuto i contadini come li ricordavo nelle nostre campagne, al tempo della mia infanzia”.
E più avanti aggiunge: “Oggi quel mondo di contadini è assediato dalle grandi imprese il cui scopo è il profitto. Anche il contadino vuole guadagnare, ma il suo attaccamento alla terra è anche un atto d’amore ed è in questo sentimento solidale che si genera il rispetto della Natura”.

Nell’ottobre 2006 si svolge a Torino, organizzato dall’associazione Slow Food, la seconda edizione del forum mondiale Terra Madre, un raduno delle comunità di base di contadini e pescatori, con contributi di esperti in campo agroalimentare, economico e scientifico. Si ritrovano 7000 persone provenienti da 153 paesi del mondo, che producono cibo in maniera sostenibile, forti di saperi ancestrali. Olmi viene contattato dagli organizzatori per documentare l’evento e testimoniarne la portata. Un certo numero di troupe leggere dislocate all’interno dello spazio del Forum, costituite dagli allievi di IpotesI Cinema coordinati dal regista, riprendono gli interventi dal palco, scrutano particolari dei volti nell’auditorio, colgono lo spirito di laboriosità dei relatori, i picchi di tensione emotiva, le occasioni ludiche e di socialità, le pause di stanchezza.
Il progetto di un film su Terra Madre nasce così, su commissione, non diversamente da quei primi documentari industriali realizzati da Olmi negli anni ’50 per il servizio cinematografico della Edisonvolta in cui, all’abituale aridità tecnica del tema dato – si pensi alla costruzione della diga sul Reno in Un metro è lungo cinque del 1961 – faceva da decisivo contraltare lo sguardo partecipe e intriso di poesia del giovane regista, sulle miserie, sulla tenacia fino alla lucida follia, delle imprese umane. Nel caso del film su Terra Madre, il confine tra la necessità di ottemperare alle richieste del committente e le istanze personali dell’autore è cancellato dalla comunanza di intenti: Olmi riconosce nei volti e nelle parole degli agricoltori intervenuti al Forum, lo stesso attaccamento alla terra dei contadini delle sue campagne, il medesimo spirito di alleanza con la natura.

Per un autore che ha corso volentieri il rischio di apparire un nostalgico pauperista, tacciato di idealizzare l’autenticità della vita campestre, Terra Madre rappresenta indubbiamente una sorta di rivincita personale. Le parti si stanno invertendo e gli apologeti della fast-way of life cominciano ad avere il fiato corto. Mai com
e all’alba di questo millennio, alla luce della recessione economica e dei rischi associati ai cambiamenti climatici, tra carestie, sprechi e il sempre più profondo spartiacque delle diseguaglianze, la proposta della riacquisizione di pratiche e saperi ritenuti fino a pochi anni fa obsoleti, attiene più al buon senso che all’elegia passatista, offrendo una chiave di volta adeguata ad affrontare le criticità del pianeta.
L’empatia dell’autore per l’oggetto del suo documentare è tangibile, ben oltre il carattere testimoniale. Terra Madre nelle mani di Olmi diventa quasi come la Woodstock raccontata da Wadleigh ai tempi degli hippies. Lontano dallo stile del reportage d’impianto televisivo, le cronache del Forum diventano materia vivida, dal respiro epico. 
Olmi si lascia dapprima trascinare consapevolmente nel turbinio delle policromie costituito da quella moltitudine convenuta da ogni angolo del pianeta, restituendo, oltre che le ragioni di una battaglia per il diritto dei popoli alla sovranità alimentare, il sapore gioioso della straordinarietà dell’evento, la tenacia non ideologica dei protagonisti nell’affrontare la complessità delle questioni.
 C’è l’attivista indiana Vandana Shiva che racconta dei sucidi di migliaia di contadini del suo Paese, indebitati dal sistema dei brevetti di sementi geneticamente modificati. 
C’è la scrittrice africana Aminata Traoré, che inverte il paradigma del nuovo razzismo secondo il quale oggi sarebbero i neri gli invasori, quando è evidente il perpetrarsi di una politica di spoliazione sistematica di risorse ai danni delle genti del sud del mondo.
Ma vengono proposti esempi positivi anche a poca distanza dalla sede della Monsanto: il quindicenne Sam Levin, studente di una scuola superiore nel Massachusetts che, con passione e spontaneità, presenta il “Progetto Germoglio”, un orto biologico scolastico gestito dagli studenti, con tanto di sistema di recupero delle acque piovane. Una sfida vinta, visto che il raccolto rifornisce la mensa scolastica e il  progetto è stato studiato e ripreso da altri istituti in nordamerica.   
Il concetto chiave di biodiversità come motore dell’ecosistema, trova immediato riscontro nell’impatto visivo offerto da un’assemblea che fa della varietà e della pluralità le proprie ragioni costituitive.
L’angolo di visione si estende progressivamente ad abbracciare la vita e il lavoro di alcuni dei partecipanti al raduno nelle loro terre d’origine. Parallelamente, le argomentazione degli interventi, offrono l’aggancio all’inserimento di contributi testimoniali, in parte materiale di repertorio, in parte girati per l’occasione, sui rischi connessi ai cambiamenti climatici e sulle iniziative di governi e istituzioni a tutela della biodiversità.

Le giornate del forum diventano così il punto di partenza da cui tratteggiare l’itinerario di un viaggio profondamente suggestivo dall’India al Circolo Polare, alla scoperta di quelle enclavi, comunità e territori liberati, da cui riprendere le fila di uno sviluppo spezzato, rinsaldando l’alleanza tra Umanità e Natura da cui dipenderà la salute della Madre comune. 
Qui il film di Olmi si libra, tocca toni lirici, esoterici da cinema di fantascienza filosofico.  Come non pensare a Tarkovskij o Kubrick, di fronte alle immagini davvero stupefacenti della Banca Mondiale dei Semi, una riserva di specie vegetali a rischio estinzione, conservate sotto il permafrost nelle isole Svalbard in Norvegia. La fotografia ha la luce irreale dell’aurora boreale, la musica assume l’andamento adagio-maestoso.
Viene in mente l'eco-catastrofico 2002, la seconda odissea, con la nave spaziale trasformata in gigantesca serra per consentire la sopravvivenza del mondo vegetale, scomparso sulla Terra a causa della catastrofe nucleare. E’ ancora un film di fantascienza dei primi anni ‘70, Soylent Green, a immaginare un futuro in cui, in seguito all’estinzione delle specie vegetali, un’unica multinazionale produce cibo sintetico ricavato dai cadaveri, per soddisfare il bisogno alimentare di un pianeta sovraffollato.

Il segmento Svalbard è pura emozione. Il documento diventa visione metafisica. Cominciamo a capire l’intenzione di Olmi.  Nel terzo movimento del film, assistiamo al progressivo distacco dalla contingenza, ci allontaniamo dall’agone sociale, dalle voci e dalle teorizzazioni, per quanto ragionevoli e condivisibili esse si presentino. Il pretesto narrativo è offerto dal testo L’uomo senza desideri di Ignazio Roiter, la storia vera di un’esperienza radicale di eremitaggio laico. A San Cipriano di Roncade, nella campagna veneta, un uomo è vissuto per quasi quarant’anni in totale isolamento in un misero podere protetto dalla vegetazione, nutrendosi unicamente dei frutti della terra coltivati secondo metodi tradizionali, vestendo abiti cuciti da sé, rifiutando qualsiasi offerta di assistenza da vicini e parenti.
 Piuttosto che interrogarsi sulle ragioni di una scelta tanto estrema – nel film si fa solo cenno al dolore per un amore non corrisposto – Olmi si accosta con il consueto rispetto a una vicenda umana in cui sembra ritrovare uno dei suoi personaggi di contadino ostinato e in cui, a partire da una condizione di disagio o di sofferenza, economica o interiore che sia, l’individuo ritrova dignità  e una dimensione esistenziale autentica, in totale solitudine, attraverso il rigore di una disciplina interiore e in un processo di scambio amniotico con la terra. Siamo già lontani dalla pluralità di voci della folla torinese.
La narrazione di Omero Antonutti rarefatta e sostenuta solo dai suoni della natura, ha ormai solo il compito di fornire informazioni minime; più che altro evoca la presenza dell’uomo mentre, all’interno della sua dimora cadente, leggiamo nella semplice mobilia, negli strumenti di lavoro corrosi dalla ruggine, nelle stanze abbandonate, i segni lasciati dai suoi riti solitari. Intanto, all’esterno della casa, esperti agroalimentari, sociologi ed economisti incontrati al forum, si confrontano sulla possibilità e i limiti di individuare in quella vicenda singolare, un modello positivo di esistenza e di organizzazione del lavoro, replicabile su vasta scala.
Ma qui Olmi li lascia, a discutere di politica e di sviluppo sostenibile, non per spregio o indifferenza; ha percorso assieme a tutti loro un tratto di strada importante, ma adesso preferisce restare solo, con il suo contadino. Le voci sfumano. L’unico suono udibile è la presa diretta sulla natura, solcata dal rombo di aerei lontani. Olmi ci trasporta nell’ultima dimensione della sua odissea. Come al termine del viaggio del cosmonauta superstite di 2001, anche questo movimento è caratterizzato dall’assenza di parole umane. Una solitudine troppo rumorosa, direbbe Hrabal, che condurrà alla morte, ma che è anche premessa di rigenerazione.  

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