Sarah Fattahi, giovane regista Siriana, si è fatta conoscere in ambito internazionale con Coma (2015), la prima parte di un trittico documentario dedicato alle donne del suo paese colpite dal conflitto armato che ha devastato la Siria dal 2011 in poi. Con uno stile rigoroso e intriso di poesia, Sarah Fattahi osserva le conseguenze di questa tragedia inaudita sul corpo e sull’anima delle sue protagoniste che, dal fondo di una disperazione senza nome, lottano con tutte le proprie risorse per sopravvivere e preservare la loro dignità.

Il topos prediletto della regista é lo spazio inteso come luogo di confinamento e come prigione a cielo aperto: il perimetro di un appartamento, com’è il caso in Coma – descrizione della quotidianità di varie donne costrette a vivere recluse nel loro alloggio a Damasco per proteggersi dalla guerra- o ancora le strade di Vienna, simili a un labirinto senza uscita sulla via dell’esilio, in Chaos. Il confinamento dello spazio fisico che circonda queste donne riflette dolorosamente la loro prigione interiore, il trauma che le condanna a vivere in uno stato di vuoto, d’inquietudine, di smarrimento assoluto come in un limbo mentale fra la vita e la morte.

Dopo avere essere coraggiosamente rimasta in Siria durante i primi quattro anno della guerra, Sarah Fattahi si è finalmente decisa a lasciare il paese. Dopo un passaggio a Beirut, il suo periplo l’ha condotta infine a Vienna dove vive oggi come rifugiata politica. Chaos riflette la sua esperienza e quella di due altre donne, una restata a Damasco e un’altra fuggita ed approdata in Svezia ed è un film profondamente personale ma dalla portata universale. La regista fa prova di una sensibilità e di un’incisività straordinaria creando un’elegia dolente, dal tono pacato e misurato per parlarci dell’esperienza post-traumatica della guerra come raramente si è riuscito a fare nel cinema.

Ho incontrato Sarah Fattahi a Locarno, subito dopo la proiezione stampa del film. E stata una conversazione unica, fuori dagli schemi, attraversata da una profonda commozione; spesso le parole di Sarah hanno fatto spazio al silenzio, allo sguardo. Ne conservo il ricordo prezioso di un incontro molto personale, intriso di umanità.

Chaos è un film raro ed esemplare per la sua capacità a esprimere l’orrore dell’indicibile….

 Parlare di un film come il mio che ha a che fare con i traumi psicologici causati dalla guerra, non é facile. Trovare le parole giuste per esprimere la situazione psicologica di ogni singola donna che si vede nel film é stato in effetti molto difficile. Mi sono spesso chiesta: cosa devo fare, come posso affrontare ed esprimere tutto ciò? Mi sono spesso sentita impotente, senza le parole giuste per farlo.

 Per molte ragioni, che ti lascio immaginare, all’inizio é stato molto difficile riuscire a convincere delle donne a partecipare a questo progetto e spiegare loro che le loro testimonianze sarebbero confluite in un unico film. Penso che questa reticenza sia dovuta proprio alla guerra. L’esperienza della guerra porta con se quella della frammentazione ; la guerra spezza la vita degli individui, la riduce a pezzi. Ti faccio un esempio concreto: io, in questo momento, vivo in Austria ma la mia famiglia è ancora in Siria. Purtroppo c’è molta gente che si trova in situazioni ben peggiori, e molto più complicate della mia. Ormai non esiste più un unico Siriano che non abbia fatto l’esperienza della perdita di una persona cara. Ma le cose sono, a volte, ancora più complicate. Io sono fuggita in Austria per mettermi in salvo e cercare di arginare quest’esperienza di perdita continua ma questa fuga non mi ha permesso di evitare il dolore della morte, infatti qualche mese dopo il mio arrivo nel mio paese d’adozione ho dovuto confrontarmi alla morte della persona più cara che avevo conosciuto in Austria: Hans Hurch.

E un processo che sembra senza fine….

Com’é sorta la struttura tripartita del film ? La scelta delle tre protagoniste, i luoghi, il modo di connettere queste realtà e di passare costantemente dall’una all’altra all’interno della narrazione?

Il primo film, Coma, mostrava tre donne siriane di una stessa famiglia muoversi durante tutta la durata del documentario in un unico spazio, quello della loro casa, l’unica apertura su uno spazio diverso, alla fine della pellicola era quella di un cimitero molto antico a Damasco. Chaos è stato una vera sfida per me. Mi sono chiesta: come posso cercare di connettere, trovare delle passerelle, per unire le vicende e le esperienze delle protagoniste del mio film, di cui io stessa faccio parte? In realtà ci sono una miriade di punti comuni fra me e queste donne che hanno tutte abitato a Damasco, che sono siriane ed hanno vissuto, come me, l’esperienza della guerra. Fra tutti questi punti in comune quello più forte, quello essenziale è il fatto di avere sviluppato un trauma, di vivere una situazione traumatica.

Nel film vengono mostrate tre esperienze traumatiche diverse che rappresentano ognuna uno stadio diverso ed un livello diverso di trauma. Volevo esplorare il modo in cui queste donne hanno reagito alle terribili notizie che hanno appreso: come si sono confrontate con l’orrore di questa nuova realtà e come sono riuscite, in quale modo e a che livello, a liberarsi da questo peso, a lasciare la presa. Questa è stata la ragione per cui ho deciso di dividere il mio film in tre parti, tre storie e tre caratteri che però sono strettamente connessi l’uno all’altro.

Perché queste tre donne in particolare? Quali criteri ti hanno guidato in questa scelta?

Prima di tutto bisogna dire che una di queste tre donne di fatto sono io stessa ma la mia presenza nel film è mediata dalla presenza di un “doppio” rappresentato dalla scrittrice e poetessa austrica Ingeborg Bachmann, personificata sullo schermo da un’attrice, Jaschka Lämmert.La presenza di Ingeborg Bachmann e delle sue parole nel film è cruciale. Ho sentito la necessità di citare dei brani dei suoi scritti e di utilizzare degli estratti delle sue interviste perché Bachmann riesce ad esprimere con chiarezza, molto meglio di quanto avrei mai potuto farlo, questo tipo di situazione. Per me Ingeborg Bachmann è la narratrice del film: nella prima parte del film si può ascoltare una sua intervista rilasciata nel 1971 e più tardi si sentono le sue risposte in un’intervista sul suo famoso romanzo Malina. Per quanto riguarda le due altre protagoniste del film: la donna velata in nero è Raja, la migliore amica di mia mamma. Sono venuta a conoscenza della notizia scioccante sulla tragica uccisione di suo figlio mentre stavo lavorando alla post produzione del mio primo film a Beirut.La seconda protagonista è Heba, la mia migliore amica. Ha lasciato Damasco nel 2015 per rifugiarsi in Svezia, dove vive ormai da quattro anni a questa parte. Ci tenevo molto alla sua presenza nel film perché è una persona molto aperta che esprime i suoi pensieri e i suoi sentimenti con molta chiarezza e grande precisione. Per me queste due donne sono come una metafora della città d Damasco.

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