Concentrata e decisa una bimba percorre su due pattini a rotelle, affondando a tratti nella sabbia bagnata, una lunghissima spiaggia invernale battuta dal vento e dalle onde dell’oceano. Ostinazione e impotenza caratterizzano la sequenza d’apertura di El premio, di Paula Markovitch, scrittrice e sceneggiatrice di origine argentina, che affronta in questo suo primo lungometraggio il soggetto della dittatura militare.

Le immagini sorgono dal fondo recondito della memoria e portano in superficie, come degli oggetti smarriti alla deriva, i ricordi d’infanzia  della regista. “Le dittature lasciano una ferita molto più profonda di quanto si possa pensare a prima vista, la società resta lacerata e non si riprende mai completamente.” – ha detto Paula Markovitch alla stampa. La proliferazione di opere cinematografiche intorno a questa tematica sono una prova concreta di quanto la storia recente del paese costituisca tuttora il nucleo dolente della società argentina contemporanea. “Gli argentini si confrono quotidianamente oon il ricordo del regime militare sia per averne sofferto personalmente, sia  per avervi collaborato, sia pure in maniera discreta, tanto sotto un punto di vista ideologico che attraverso le loro azioni concrete nella loro vita quotidiana” – ha poi aggiunto.

Ambientato negli anni settanta El premio ci restituisce un mondo plumbeo, lievemente irreale, trasfigurato poeticamente dal ricordo infantile, ma pur sempre palpabile e concreto. In seguito all’implicazione del padre nella lotta contro la dittatura, Cecilia e Silvia, la sua giovane mamma, sono costrette a fuggire lontano dalla capitale e rifugiarsi in uno sperduto villaggio della costa per mettersi al sicuro. Cecilia è costantemente esposta al pericolo e alla paura; per nessun motivo deve rivelare la sua vera identità, né tanto meno quella dei suoi genitori.

Protagonista indiscussa di questa storia è la bimba, meravigliosamente interpretata da Paula Gallinelli Herzog; intorno a lei ruota un universo incommensurabile, dominato dalla natura, splendidamente selvaggia e spesso ostile e da condizioni di vita estremamente precarie.

Madre e figlia vivono nascoste in una baracca isolata sul bordo di una spiaggia deserta di fronte all’oceano; le finestre sono rotte, non c’è riscaldamento. L’arredamento è rudimentale; un letto, un tavolo, una vecchia radio. In un angolo sono accatastati ombrelloni e sedie a sdraio sgangherate, vari oggetti persi o dimenticati sono sparsi qua e là. Per tenersi al caldo Cecilia e Silvia dormono insieme, vestite e coperte da tutti i loro indumenti. In una valigia hanno portato con sé poche cose preziose: dei libri, una scacchiera… Forse è proprio l’interno di questo luogo abbandonato, inospitale, freddo, disordinato e caotico che meglio rappresenta lo stato emozionale del paese all’epoca in cui avvengono i fatti.

Passati i primi giorni difficili Cecilia vuole assolutamente andare a scuola, come tutti i bambini. La vita di Cecilia si svolge fra la baracca, la scuola e la lunga spiaggia deserta con le sue dune ed alcune case diroccate, terreno di gioco prediletto per lei ed i suoi nuovi amici. La storia è raccontata da un punto di vista esterno ma la rappresentazione di questo mondo è filtrata attraverso gli occhi della bimba: tutto ciò che la circonda è grandioso, magnifico e misterioso. Cecilia è allo stesso tempo vulnerabile ma dotata di una singolare forza di carattere,  matura e piena di rabbia, conscia delle sue qualità ma bisognosa della considerazione degli altri. Pur essendo fiera delle sue radici e della sua storia famigliare Cecilia é combattuta fra il segreto della sua identità e il suo desiderio d’integrazione, amicizia, affetto e riconoscimento da parte dal piccolo mondo che la circonda a scuola.

La bimba deve stare costantemente attenta a non rivelare la sua vera identità a nessuno. All’inizio tutto questo sembra essere un gioco, Cecilia ha imparato a memoria una frase ad hoc con cui risponde sempre quasi divertendosi: “Mio padre vende tende e mia madre fa la donna delle pulizie!”. Poi un giorno un gruppo di soldati arriva nella piccola scuola per proporre agli alunni un concorso ufficiale in onore della patria e dell’esercito. Cecilia, zelante, scrive quello che ha sempre sentito dire in casa sull’argomento.  Cosa succederà una volta che i militari avranno letto il suo testo? In un crescendo drammatico Silvia si rende conto di quanto ha fatto sua figlia e si prepara a fuggire ma, nel cuore della notte, un’evasione dal villaggio è praticamente impossibile. Disperata si rivolge alla maestra che ha ancora con sé le copie del concorso. Contro ogni aspettativa la donna, devota al potere, si lascia impietosire e permette a Cecilia di riformulare i suoi pensieri. La bimba finisce, paradossalmente, per vincere il primo premio. Mentre la madre le proibisce di accettarlo Cecilia si ostina e non vuole rinunciarci a nessun costo.

Nel corso di una cerimonia di premiazione alquanto lugubre – la messa in scena ci mostra i piccoli alunni con i loro grembiulini bianchi circondati da due file imponenti di soldati armati – Cecilia si rende finalmente conto del suo errore e corre a casa per domandare perdono alla madre.

El premio avrebbe dovuto concludersi qui, peccato che la regista abbia aggiunto un’ultima scena che, benché basata sul suo vissuto personale, toglie molta forza alla drammaturgia del film. Un uomo appare da lontano sulla spiaggia, è il padre di Cecilia che tutti pensavano scomparso; la famiglia si riunisce felice in un abbraccio in riva al mare.

In El Premio Paula Marcovitch riesce a illustrare con grande finezza introspettiva il dissesto morale e psicologico, i conflitti di coscienza e la sottile perversione che il regime dittatoriale aveva imposto all’insieme della popolazione. La scuola è il terreno ideale che la regista sceglie per esplicitare la complessità di questa situazione; repressione e manipolazione vi regnano congiuntamente.

Tutte le figure del film, ad eccezione di Silvia, sembrano avere un doppio fondo e si dibattono in comportamenti ambigui e contraddittori. La maestra Rosita rappresenta la quintessenza di quest’ambiguità; il suo rispetto esacerbato per la dittatura è temperato, infatti, da momenti di umanità. Anche Lucia, una bimba del luogo con qui Cecilia fa amicizia, riproduce questo modello. Nonostante le due compagne di classe passino il loro tempo a giocare insieme in riva al mare e fra le dune l’affetto di Lucia per Cecilia non è privo d’invidia e di gelosia. Alla prima occasione, sarà proprio lei a denunciare Cecilia alla maestra. Cecilia stessa preferisce, ad un dato momento, il riconoscimento ufficiale delle sue capacità all’affetto e alla considerazione di sua madre.

 ‘La parola’ è censurata, bandita tanto dalla storia – quella reale – quanto dalla narrazione del film: fonte di pericolo e d’insidia costante ‘la parola’ è taciuta – la bimba è costretta a dissimulare la sua vera ident
ità – o addirittura seppellita, come testimonia la lunga sequenza in cui Silvia nasconde, con gesti febbrili, i libri che ha portato con sé sotto la sabbia.

La parola costituisce, ovviamente, anche la chiave di volta della storia: al verbo mistificatore della dittatura si oppone, ribelle, la testimonianza sincera della bimba.

Nella mente infantile di Cecilia l’interdizione a esprimere i propri pensieri si limita alla parola parlata ma non a quella scritta; così, fatalmente, la bimba scrive la verità:  “l’esercito é cattivo”, “i soldati sono dei criminali impazziti”, “hanno ucciso mio cugino”.

El Premio è un gioiello di metafore visuali. Lo spazio si divide fra l’immensità degli esterni – la spiaggia che si estende a perdita d’occhio, l’infinita distesa dell’oceano, la profondità diafana del cielo – e l’esiguità degli interni, teatro di conflitti e coercizioni. Mentre la classe rispecchia l’ordine e la disciplina imposta dai regolamenti scolastici e militari, la casa delle protagoniste riflette nel suo disordine il caos reale che regna nella società argentina in quel periodo.  Il paesaggio invernale è ritratto in tutto il suo cupo splendore. La fotografia di Wojciech Staron, premiato con l’Orso d’Argento, coglie con virtuosità la luminosità variabile del cielo, i colori sfumati della natura selvaggia, le forme mutevoli delle dune, i riflessi argentati del mare, la spuma biancastra delle onde. Portata a mano per la quasi totalità del film, la cinepresa segue con empatia i giochi dei bimbi, il loro muoversi libero e vivace negli spazi aperti, i loro moti scattanti e imprevedibili così come pure l’agitazione costante nella baracca in cui vivono madre e figlia, per ritrovare poi una concentrazione tesa e grave nell’universo scolastico.

Già dalla prima sequenza la musica originale di Sergio Gurrola crea, con le sue note dissonanti, un’atmosfera di disagio e di malessere. Il suono, impiegato in modo impressionista, diventa essenziale: lo sbattere delle persiane sgangherate intensifica l’ansia delle protagoniste, il soffio infuriato del vento, il senso di pericolo, il boato minaccioso delle onde, la loro solitudine.

L’allestimento, che è valso a El premio il suo secondo Orso d’Argento, è curato nei minimi particolari e trasmette una sensazione di autenticità, non per nulla: “Gli oggetti che si vedono nel film sono gli oggetti della gente del villaggio, non sono oggetti da set ma degli oggetti d’uso corrente, carichi di storia e di memoria” come ha spiegato Paula Marcovitch.

La regista opta per uno stile minimalista; i dialoghi vengono usati con grande parsimonia. É soprattutto attraverso l’intensità degli sguardi, l’espressione dei volti e la fisicità dei corpi, il movimento, i gesti e i giochi, spesso sfrenati dei bimbi, che il film ci trasmette lo stato d’animo dei suoi personaggi.

Ottimo, infine, è il lavoro con i giovani attori non professionisti e soprattutto la straordinaria interpretazione della giovane Paula Galinelli Hertzog nel ruolo di Cecilia.

Alla regista si possono rimproverare tuttavia alcune debolezze a livello di montaggio e di drammaturgia. Il ritmo narrativo é spesso diluito eccessivamente dall’osservazione della natura circostante, dall’esplorazione insistente dell’universo infantile e dalla descrizione delle deambulazioni solitarie di Cecilia; togliendo qualche lunghezza il film avrebbe certamente guadagnato in coesione. Anche a livello narrativo il climax e l’anti-climax occorrono già a due terzi del film e lasciano poi scemare la tensione e l’interesse nell’ultima parte.

Nonostante questi difetti, El Premio può essere senza dubbio considerato come una delle proposte più interessanti in seno ad una competizione internazionale quest’anno piuttosto deludente nel suo insieme. Sulle tracce della memoria Paula Marcovich ci offre una riflessione poetica, oltre che politica, su un periodo cruciale della storia argentina, ricordandoci inoltre, attraverso le vicende della sua piccola eroina, coraggiosa e ostinata, quanto l’innocenza infantile possa essere vulnerabile ed effimera.

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