Con l’eterea precisione di un acquarello e l’essenzialità diamantina di un haiku  L’ombre des femmes di Philippe Garrel ci seduce con finezza, empatia ed una sottile vena di humor nei meandri tormentati dell’amore.

Un uomo e una donna, poi ancora un’altra donna ed eventualmente un altro uomo; il ritornello sempiterno della fedeltà e del tradimento acquista nell’ultimo film di Garrel dei colori nuovi ed una musicalità inedita.

Siamo a Parigi e la città è ben presente: le sue strade, i suoi caffè, i portoni delle case, gli esigui appartamenti in cui vivono e palpitano i protagonisti del film, eppure attraverso l’obiettivo di Garrel, ci sembra quasi di scoprirla per la prima volta, familiare e disincarnata, comune e straordinaria. Il suono ambiente è quasi completamente evacuato dai piani che, nelle riprese all’esterno, mostrano un volto sobrio, scarsamente popolato della ville lumière.

Pierre (Stanislas Merhar) e Manon (Clotilde Courau), la coppia del film, vivono di poco: Pierre è documentarista e Manon sembra ormai esistere solo per lui, all’ombra dell’uomo che ama più di ogni cosa al mondo, come spiega in una delle prime sequenze a sua madre: “Cosa c’è di più bello che sacrificare la propria vita per l’uomo che si ama?” dichiara Manon alla donna matura, ma molto coquette che le sta di fronte, seduta al tavolino di un caffè e che  ribatte con un tono benevolo e pieno di affetto: “Cara, credimi, nessun uomo al mondo merita che si sacrifichi la propria vita per lui !”

Così, in questo piccolo dialogo quasi anodino, si tratteggia l’arco della storia che vedremo prendere pian piano corpo davanti ai nostri occhi.

Philippe Garrel filma, con un bianco e nero pastoso, denso di sfumature quasi tangibili e materiali, un quotidiano dal tono pacato, dove le emozioni che travolgono i protagonisti sono sempre filtrate da un velo di pudore e di ritegno.

L’appartamento che Pierre e Manon condividono è trascurato al punto da risvegliare l’ira del proprietario che minaccia di espellerli. Le tappezzerie dei muri sono a brandelli, nella cucina rudimentale un fornelletto a gas serve per cuocere il cibo; eppure questo luogo non manca d’intimità, né di calore. Il letto è un’alcova accogliente circondata di bambù, s’intravvedono degli scaffali con dei libri come se l’amore di Pierre e Manon non avesse bisogno d’altro, come se l’arredamento fosse un qualcosa di totalmente superfluo.

Pierre e Manon bastano a se stessi, sono in osmosi: come un unico corpo, vicini ed attenti lavorano insieme, giorno dopo giorno. Tesi all’unisono ascoltano, attenti, le confessioni di un vecchio appartenente alla resistenza di cui Pierre vuole fare il protagonista del suo prossimo documentario. Raccolti intorno ad un grosso tavolo nell’appartamento del loro personaggio, Pierre e Manon seguono attenti l’uomo che racconta in modo magniloquente le sue avventure continuamente interrotto dalla voce tremula di sua moglie, un’anziana signora che gli gira intorno cercando di accaparrarsi almeno una briciola di attenzione offrendo alla giovane coppia i suoi biscotti.

Magia della messa in scena, con un tratto leggero ma incisivo Garrel sembra mostrarci il futuro possibile dei nostri protagonisti, anche se la sorte riserverà a Pierre e a Manon un cammino ben diverso.

Un giorno infatti Pierre incontrerà nei meandri di un archivio cinematografico una giovane stagista, Elisabeth (Lena Paugam), che diventerà ben presto la sua amante.

Una voce off maschile – quella di Louis Garrel- ci guida in quest’intricato labirinto amoroso e commenta, sobria, i fatti e gli atti dei personaggi della vicenda.

Pierre è un vigliacco, ama profondamente sua moglie, che non lascerebbe per nulla al mondo, ma, in quanto uomo, considera che sia normale e che faccia parte della sua “natura” essere infedele ed avere un’altra donna ancora per soddisfare il suo appetito carnale.

Con una certa freddezza che vuole spacciare per onestà, Pierre annuncia a Elisabeth i termini del loro rapporto e la ragazza, profondamente innamorata, accetta, e non perché questo contratto le vada bene ma perché non ha altra scelta. Anche lei inizia a vivere nell’ombra di Pierre, aspettando con frenesia il suo arrivo nel suo piccolo studio sotto i tetti con vista sulla Tour Eiffel.

Manon, dal lato suo, capisce che Pierre si sta allontanando la lei; lo percepisce, lo prova in modo straziante, giorno dopo giorno, nel suo sguardo sfuggente, nella sua indifferenza crescente. In una scena deliziosamente sarcastica, Manon risponde, giocosa e sorridente al marito che arriva a casa con un mazzo di fiori: “ Lo sapevi che regalare un mazzo di fiori è tipico degli uomini che tradiscono la moglie? Ma, ovviamente, non è il tuo caso…”

La vita segue il suo corso: Pierre, da sei mesi ormai, divide il suo tempo fra la moglie e l’amante ma, per uno strano gioco della sorte che la sceneggiatura ha il grande pregio di presentarci con una naturalezza sorprendente, un incontro fortuito cambia improvvisamente le carte  in tavola.

Elisabeth sorprende in un caffé Manon con un altro uomo. Anche Manon, dunque, tradiusce a sua volta Pierre. A questo punto la verità esplode in tutti i sensi: mentre considera ‘naturale’ tradire sua moglie, Pierre, il ‘macho’, non può assolutamente tollerare l’idea di venire tradito a sua volta. Manon deve decidere o lui o l’altro!

Manon tronca netto con il suo amante ma l’orgoglio ‘maschile’ di Pierre non saprà accontentarsi di questo gesto, la rottura è inevitabile.

Un anno dopo, al funerale del vecchio resistente che, in realtà, non era altro che  uno dei peggiori traditori dell’epoca, Pierre e Manon si ritrovano infine nel sole pallido che bagna l’entrata della chiesa: schivi, dapprima, poi, pian piano complici di nuovo e per sempre.

In questo breve racconto, quasi onirico, di un’ora e dieci minuti, l’ombra delle donne si delinea con forza; filmate dall’obiettivo di Garrel le donne sorgono dall’ombra per mostrare quanto il loro coraggio, la loro lucidità e la loro capacità di amare sia vitale in un mondo ampiamente dominato dalla figura maschile. Garrel tratteggia l’immagine di un uomo che si crede il fulcro del mondo, ma finisce sul retroscena spinto dalla forza e dall’intelligenza quotidiana delle donne che lo amano e che lottano con intelligenza e tenacia.

Il regista si schiera completamente dalla parte delle donne, con un gesto meravigliosamente poetico, elegante e raffinato, abbozzando il profilo di un uomo sempre più inerme.

Stanislas Mehar, traduce bene nella rigidità dei gesti e nell’espressione lontana ed impenetrabile del volto il carattere egoista ed intransigente di Pierre, ma sono soprattutto le due protagoniste ad illuminare con il loro gioco delicato, a fior di pelle, appassionato ma sobrio ogni singolo fotogramma del film.

Negli occhi, sulle labbra di Mathilde Coreau-Manon sembrano passare delle dense nuvole e, nell’attimo seguente, sorge il sole con una naturalezza; i piccoli gesti del quotidiano s’incaricano di tradurre tutto il peso della sua passione e del suo dolore mentre l’esordiente Lena Paugam dà corpo al ruolo sensuale ed affettuoso della giovane amante con un candore disarmante.

Precisione ed intensità marcano ogni singola scena che, nel modello di produzione artigianale proprio al regista,  è il risultato di un’unica ripresa.

Questo trio, al quale si aggiunge in tre brevi apparizioni Mounir Margoum nel ruolo dell’amante effimero di Manon, evolve nel corso della narrazione come in una danza, guidato dalla musicalità del montaggio e dai dialoghi deliziosamente orchestrati a quattro mani: due mani femminili, quelle diCaroline Deruas e di Arlette Langman e due maschili, quelle di Garrel e, per la prima volta, di Jean Claude Carrière.

Philippe Garrel, schivo e febbrile, ha assistito a tutto il film che inaugurava la 47esima edizione della Quinzaine des Réalisateurs, da solo, in piedi, in fondo alla sala. I suoi attori sono dovuti venire a cercarlo durante l’immenso, calorosissimo applauso finale, portandolo- come vuole la tradizione – nel centro della sala, sotto la luce dei riflettori.

(Le foto scattate durante la proiezione ufficiale sono di Maria Giovanna Vagenas)

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