Si è da poco concluso “Da Sodoma a Hollywood”, il Torino GLBT Film Festival che quest’anno ha celebrato i venticinque anni di vita puntellando ciascuna stagione passata ad un film memorabile, esemplare o semplicemente bello (la rassegna “I venticinque film che ci hanno cambiato la vita”). In un moto della memoria in cui l’immaginario individuale e quello collettivo hanno prodotto una mappa di suggestioni significative e –diciamo così- sentimentali (così che fuori campo, vittime dell'"arbitrio del cuore", sono rimasti registi come Fassbinder, Van Sant  e Jarman), si sono potuti vedere film importanti per la valenza apertamente politica del tema rappresentato (Bent di Sean Mathias sull’Olocausto gay e Jeffrey di Christopher Ashley sull’Aids) e altri necessari per la forza creativa delle immagini (lo struggente Happy Togheter di Wong Kar-Wai e il cult Cuori nel deserto di Donna Detch, sensuale rielaborazione in chiave lesbica de Gli spostati di John Huston).

Il Festival, che ha aperto le sue porte nel 1986 come semplice rassegna per poi divenire punto di riferimento internazionale della cinematografia gay, da sempre si oppone con immutata passione alla falsa coscienza del cinema mainstream, patinato e rassicurante, che ancora oggi propone come unica “diversa” possibilità identitaria il personaggio del gay sofferente e condannato a un eterno senso di colpa, quando non una semplice macchietta. Osservatorio a tutto campo (vedi la fitta rete ferroviaria di formati e generi che compone la sezione “Binari”) e laboratorio attivo che nel corso degli anni non si è lasciato sfuggire i lavori di artisti come Derek Jarman, Gus Van Sant, François Ozon, Todd Haynes e Cheryl Dunye (autrice del primo film lesbico sulla comunità afro-americana), per dirne solo alcuni. Spazio aperto in cui, attraverso la rivoluzionarietà del gesto artistico, dell’immagine, poter rivendicare diritti calpestati o non riconosciuti di una comunità interessata sia alla ricerca dell’affermazione di se stessa che alla necessità di dare una forma compiuta alla propria espressione, non scindendo, cioè, come dice Alberto Barbera, "l’affermazione di un principio dal modo in cui esso viene storicizzato, manifestato, raccontato”. Così che la relazione “con le precedenti manifestazioni del pensiero umano” , il dialogo “con le altre forme dell’espressione individuale”  e il  confronto "con le realizzazioni più significative dell’arte contemporanea e del recente passato”, si palesano come attività imprescindibili per una reale ed organica presenza nel mondo della cinematografia Glbt.

Ma il Torino Glbt Film Festival è anzitutto un posto accogliente. Un polo culturale situato all’interno di quel virtuoso cantiere di produzione che è Torino: Museo del Cinema, Cineporto, Torino Film Lab, Festival di Torino, Film Commission Torino Piemonte, Giffoni Film Festival, sono infatti solo alcune delle realtà che con autorevolezza oramai internazionale riescono in quel difficile compito di mettere in comunicazione tutti i soggetti coinvolti nell’esperienza collettiva che è il cinema.

A partire da questa edizione, inoltre, il Festival ha attribuito il premio “Dorian Gray” (volevano chiamarlo “Oscar”, in onore del grande Wilde, ma il rigido copyright sul termine “Premio Oscar” ne ha negletto la realizzazione) a un artista che nel corso della sua carriera si è speso in modo significativo nel cinema gay. Il premio è andato al regista statunitense James Ivory, presente al Festival, che nell’occasione ha presentato il suo ultimo lavoro, uscito nel 2007 ma ancora inedito qui da noi, “The city of your final destination”, raffinata trasposizione dell'omonimo -magnifico- libro di Peter Cameron (che nella traduzione italiana è diventato “Quella sera dorata”, sic). Presente al Festival in qualità di giurato, Cameron è stato anche il protagonista, suo malgrado vista la gentilezza e la disponibilità all’ascolto da egli dimostrata, di un pessimo incontro con il pubblico: traduttrice del tutto inadeguata e intervistatore narcisista… un disastro.             

Gli omaggi, invece, hanno riguardato Maria Beatty, esploratrice di territori fetish e sadomaso (un po’ di ilarità ha invero suscitato il meccanicismo del gotico e assai Kitsch "Bandaged", coprodotto da Abel Ferrara), Patricia Rozema, autrice di alcune tra le prime commedie distribuite a tematica femminista e lesbica, e Holly Woodlawn, drag queen formatasi artisticamente nella Factory di Andy Warhol e omaggiata dal compagno di strada Lou Reed in “Walk on the Wild Side”.    

Anche in questo Festival si è potuto notare come l’omosessualità, almeno nella declinazione attuale, oscilli, irrequieta, fra trasgressione e voglia di norma. Così che l’idea (desiderante) che è proprio la cifra ambigua e fuori-norma dell’identità la forza più seducente e rivoluzionaria idonea a creare spazi irripetibili di libertà, non sembra più essere, in definitiva, l’unica strada al momento percorribile. Alcuni documentari visti al Festival ci hanno infatti mostrato le battaglie di tanti gay e lesbiche per ottenere diritti quali il matrimonio e la genitorialità, dimostrando in tal modo un rinnovato interesse della comunità Glbt per la famiglia il cui fondamento giuridico, per forza di cose, deve essere ricreato. E a ben guardare, è proprio questo “desiderio di normalità” l’elemento che, paradossalmente, desta più allarme nella odierna società familista e (almeno dalle nostre parti) vaticanista. La psicoanalista Elisabeth Roudinesco, nel suo libro La famiglia in disordine (Meltemi 2006), sostiene lucidamente che “quando i gay e le lesbiche della costa californiana, a partire dal 1965-70, vollero diventare genitori, inventarono una cultura della famiglia che non era, per molti aspetti, la perpetuazione del modello che avevano contestato e che era già in piena trasformazione. Ed è proprio perché questa cultura portava con sé un grande desiderio di normatività che fu accolta come la peggiore delle ferite all’ordine simbolico”.  Il tabù relativo all’”ordine naturale della procreazione”, insomma, già duramente attaccato, sul fronte eterosessuale, dal femminismo prima e dalla procreazione assistita poi, si è così ritrovato ad uscire fuori in modo definitivo dalla sfera dei fantasmi e a divenire argomento di discussioni e di concretissimi provvedimenti normativi.  

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;  – Nota (arbitraria): l’immagine restituita alla memoria che produce un cambiamento è il ballo dei due amanti nel tinello argentino targato Wong Kar-Wai. E’ temperatura emotiva di una danza in cui il corpo è emozione che si fa figura. 

 

Premi e motivazioni

Concorso lungometraggi

La giuria composta da Peter Cameron, Ivan Cotroneo, Eytan Fox, Patricia Rozema e Cesare Petrillo ha assegnato i seguenti Premi:

Premio Ottavio Mai al miglior lungometraggio

El Nino Pez di Lucia Puenzo

"Per la fluidità e l'inventiva cinematografiche, per la narrazione accattivante e originale e per l'attenzione costante ai momenti semplici della vita dei personaggi".

Premio Speciale della Giuria

El cuarto del Leo di Enrique Buchichio

"Per la verità, la fresca semplicità e la tenerezza, per la capacità di raccontare un dramma personale e, al tempo, universale senza retorica ed eccessi melodrammatici".       

Premio Miglior Documentario

Adopcion di David Lipszyck

"Per aver scelto un tema controverso come l'adozione sullo sfondo della dittatura militare argentina, affidando una storia vera all'interpretazione di attori eccellenti. la realizzazione filmica contamina i diversi piani del racconto utilizzando inserto in super8, alcuni di grande potenza visionaria, oltre ad una efficace ricostruzione indiziaria degli eventi passati".

Premio Miglior Cortometraggio

Vivre ancore un peu… di David Lambert

 "Le emozioni grezze e le intense relazioni dei tre personaggi sono descritte in un modo tale da coinvolgere immediatamente lo spettatore. La struttura narrativa possiede molti dettagli scelti accuratamente che rinforzano il focus drammatico e che attraverso un'inaspettata trama creano momenti di suspence e pura intimità".

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