Fare bilanci è operazione sempre ardua, perché il rischio implicito è quello di risultare parziali e di non considerare tutte le variabili di una situazione. Nel caso della 65ma Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, ciò è ancora più vero se si considera l’esiguità del tempo trascorso dalla sua conclusione. Si possono tuttavia fare alcune considerazioni che, lungi dall’essere esaustive, aprono squarci di riflessione utili per analizzare un festival la cui formula è apparsa a molti un po’ logora. E’ indubbio, infatti, che qualcosa nella struttura del festival va ripensata per evitare che Venezia finisca “schiacciata” tra un sempre più pimpante festival di Toronto e quello di Roma che, con la nuova direzione di Rondi, ha ormai scoperto le sue carte abbandonando, anche nel nome, la vocazione di festa, dal sapore popolare e democratico, a favore di una struttura festivaliera ben più elitaria e ambiziosa. La minore affluenza di pubblico al Lido sembra in linea con quanto detto e solo in parte ciò può essere spiegato con il generale aumento dei prezzi, peraltro reale.

Diciamolo subito: questa edizione non rimarrà nella storia né per i suoi film né sotto il profilo mondano. La maggior parte dei film presentati, alcuni buoni, altri meno, ma nessun capolavoro, sono stati caratterizzati soprattutto dai temi del fallimento, personale e collettivo, della guerra e delle tragedie familiari; in molti casi i “maestri” non sembrano essere stati all’altezza di loro stessi, come Kitano e, in parte, lo stesso Miyazaki.  Dal punto di vista glamour, ha influito molto la penuria di divi hollywoodiani sulla passerella, che ha dovuto accontentarsi degli indios di Bechis e delle vecchiette di Di Gregorio. Prima del festival Marco Mueller aveva dichiarato che anche lo sciopero degli sceneggiatori USA aveva contribuito a provocare la scarsa presenza dei film americani, smentendo l’ipotesi che i grandi registi avessero snobbato Venezia, anche se ciò non spiega perché Spike Lee le abbia preferito Toronto. Ha quindi il sapore di una rivincita l’assegnazione del Leone d’Oro proprio a un film americano, quel The Wrestler di Darren Aronofsky che, quando ormai nessuno credeva più all’arrivo di un film che avrebbe convinto tutti, ha conquistato la platea del Lido, imponendosi e sovrastando tutti i concorrenti per la solidità della sceneggiatura e soprattutto per la straordinaria interpretazione di Mickey Rourke. La vittoria di The Wrestler rappresenta da un lato una riaffermazione del cinema occidentale, nonostante l’adorazione di Mueller per la cinematografia asiatica (anche la Coppa Volpi è andata a due attori europei), e, dall’altro, una sorta di ritorno al passato a favore di una cinematografia probabilmente meno sperimentale e ardita, con una struttura del racconto filmico più lineare e classica. Il film di Aronofsky, infatti, al di là dello splendido finale che non indulge al lieto fine scontato, segue una parabola abbastanza prevedibile, quella del protagonista che, caduto in disgrazia, inizia un percorso di redenzione per ricostruire la sua vita e i suoi affetti. Si dirà che proprio il finale, che vanifica gli sforzi di quel percorso, contraddice quanto abbiamo detto, ma resta il fatto che, rispetto ad altri film visti in concorso, il vincitore del Leone d’Oro consente un coinvolgimento emotivo meno cerebrale e più di “pancia” e quindi una fruibilità più immediata da parte dello spettatore.

Quanto accennavamo all’inizio poi, riguardo a una necessaria revisione della formula del festival, vale anche per l’assegnazione dei premi: siamo sinceri, se non ci fosse stata la clausola che vieta di assegnare allo stesso film più di uno dei premi maggiori, probabilmente anche la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile sarebbe andata a Mickey Rourke, al di là delle smentite e delle scuse a Pupi Avati da parte del presidente della giuria Wim Wenders. Questo non sminuisce il valore del premio (in ogni caso meritatissimo) assegnato a Silvio Orlando per la sua intensa e struggente interpretazione ne Il papà di Giovanna, ma sicuramente ci dice una cosa molto importante, e cioè che i film italiani in concorso, sui quali sull’onda favorevole di Cannes si era puntato molto, non hanno sfondato. E’ vero però che anche il cinema italiano si è preso la sua bella rivincita, dal momento che il vero caso cinematografico di questa edizione della Mostra è diventato proprio un film italiano. Pranzo di ferragosto di Gianni Di Gregorio ha infatti ricevuto il premio “Luigi De Laurentiis” per la migliore opera prima, e per lui sono state addirittura allestite proiezioni straordinarie. L’ultima considerazione su questa “strana” edizione, ce la suggerisce proprio il film dell’esordiente ultracinquantenne Di Gregorio, presentato nella Settimana della critica, vale a dire che il meglio della produzione italiana, e non solo, ce l’hanno offerta le sezioni collaterali al festival più che il Concorso. Pensiamo alla sezione Orizzonti, ad esempio, dove abbiamo ammirato il film Below Sea Level di Gianfranco Rosi (vincitore del premio per il miglior documentario) o Pa-ra-da di Marco Pontecorvo, al suo primo lungometraggio. Un’edizione controversa insomma quella che ci lasciamo alle spalle, dove le luci sembrano talvolta aver lasciato maggiormente spazio alle ombre.

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