Scrivere di un film di Terrence Malick è un’impresa ardua per più ragioni, non ultime ragioni emotive, che possono forse sintetizzarsi in una meta-questione essenziale: l’impossibilità traduttiva di render conto in parole di un cinema che con coerenza e mistica illuminazione delega solo all’immagine il compito di raccontarsi, di offrirsi a chi guarda. Man mano che passano i film, il settantenne autore texano ci appare sempre più risoluto su questa via, sempre meno «compromesso», sempre meno interessato a trovare una fruibile forma narrativa al suo cinema-mondo. Come se egli fosse pervenuto a quella dimensione privilegiata in cui il prodotto dell’artista si concepisce sempre meno come «film» (o romanzo, o canzone…) e sempre più come opera d’arte.

Messe così le mani avanti, la trama di To the Wonder, a raccontarla, si esaurisce in poco più di una riga. È la vicenda sentimentale tormentata di una giovane coppia (Kurylenko e Affleck), sospesa tra la Francia e gli Stati Uniti, che s’interseca con quella di un prete ispanico (Bardem) il cui amore spirituale attraversa una profonda crisi. Al filo così esile di tale narrazione si sovrappongono, come sempre in Malick, i monologhi interiori dei personaggi che costruiscono un livello tramico ulteriore, non necessariamente coincidente né semplicemente esplicativo rispetto alla fabula vera e propria.

Coerente col suo titolo, To the Wonder persegue la meraviglia a ogni sequenza. La camera del grande Emmanuel Lubezki (Burn After Reading, I figli degli uomini, oltre ai due Malick precedenti) si libra in volo incessantemente – su albe e tramonti, su primavere rigogliose e rigidi inverni, su litorali a perdita d’occhio e praterie percorse da stupefacenti mandrie di bufali – innalzata dalle note di Bach, Wagner, Tchaikovsky, Shostakovich. Quando plana, la mdp incontra l’armonia danzante del corpo di Olga Kurylenko casualmente, come se le rubasse un privato attimo di grazia. Il montaggio procede per associazioni cromatiche, assonanze geometriche o emotive o, più spesso ancora, semplicemente per sensazioni. Così facendo, To the Wonder mette in scena l’amore. Ma quale amore?

Personificazione malickiana dell’essere che ama, Olga Kurylenko non si cura di essere ricambiata, così come Malick di essere narrativo. Ben Affleck, destinatario apparente del sentimento di lei, non è mai davvero dentro il rapporto: egli è inerte, indifferente, se il film fosse una sola immagine, quell’immagine sarebbe certamente Olga che si muove, corre, danza, affianco e intorno a Ben, senza nemmeno sfiorarlo. Il fatto che essi occupino spesso insieme il quadro non rafforza il loro legame, piuttosto traccia i confini di una gabbia, andando a illuminare, tra di essi, un vuoto, un lutto, con il quale sono condannati a convivere. Quello incarnato da Olga è un amore privo di un effettivo contatto e di uno scambio, che mira direttamente al cielo, all’assoluto. «È l’amore che ci ama», sussurra lei in apertura e chiusura, a fare da suggello al film: il sentimento è oggettivato, espunto da sé e riassegnato a un’entità esterna al rapporto e superiore.

La continuità con i lavori precedenti, il legame ad esempio con The Tree of Life nel ragionare apertamente sulla fede (attraverso il personaggio di Bardem) e sull’intuizione di un’ulteriorità insita nell’esistenza umana, è certamente lampante; eppure Malick, esplicitando come mai prima la propria visione dell’amore, sembra voler spingere il suo discorso ancora un po’ più in là. Il suo cinema è sempre stato conteso tra cielo e terra, alla ricerca di una congiunzione tra le due dimensioni quasi sempre compiutasi in risultati di meravigliosa totalità (La sottile linea rossa, The New World), grazie a una fiducia incrollabile nell’immagine in movimento di poter suggerire tale congiunzione. Qui invece la ricerca sembra volontariamente votata al fallimento. L’impressione è di un film che volteggia sopra le nostre teste senza mai posarsi al suolo, rimanendo meravigliosamente aereo e lontanissimo dai terreni tormenti umani. Se è l’amore che ci ama/non ci ama, noi uomini possiamo implorarne l’epifania (Olga), soffrire silenziosamente (Ben), invocare Dio in soccorso (Bardem), ma tutto sarà vano rispetto a una forza che obbedisce al ciclo immutabile delle stagioni, non certo al nostro affannarsi. La funzione del dialogo persino ci è negata, e con essa l’elaborazione condivisa della crisi, ognuno di noi costretto a esprimersi in una lingua che è straniera a chi gli è più prossimo – metafora, questa, fin troppo chiara dell’incomunicabilità che ci imprigiona.

Privato così sia di una dialettica verticale (tra cielo e terra) che orizzontale (tra gli uomini), To the Wonder si radicalizza nella composizione di un’unica immagine autoconclusiva e fagocitante, talmente onnicomprensiva da fare a meno di controcampi e fuoricampi, e che sullo schermo a tratti si espande, a tratti si contrae, producendo un movimento ricorsivo, mai destinato a un progresso. Qui il fallimento è destinato a reiterarsi ciclicamente, ben oltre il the end. E se Olga, straziata dal lutto dell’Altro, arriva a dire: «Ci sono due donne dentro di me: una piena di amore per te, l’altra mi tira verso la terra», il pessimismo amoroso di Malick verso la nostra umanità alla deriva, pur mediato da una profonda pietà, ci appare radicale e irrimediabile.

 

 

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