Una ragazza cambia volto, letteralmente, per paura di non interessare più il proprio ragazzo con cui ha una relazione d'amore da qualche anno. Finirà in tragedia.

Il nuovo film del prolifico Kim-ki-duk, regista della Corea del Sud, non convince. Seppur disseminato di intuizioni e di pensiero, a conti fatti risulta essere eccessivamente pedante, didattico e privo dell'equilibrio poetico, pesante e leggero, che aveva caratterizzato molti suoi film precedenti. Potrebbe bollarsi il film come una progressiva deriva nella follia, ma sarebbe operazione riduttiva. Le moltissime metafore, che sono anche il suo limite più evidente, rimandano a una concezione della realtà molto pessimistica, in cui lo stare insieme e il lasciarsi sono azioni determinate da emozioni effimere e dipendenze patologiche. Piuttosto che cambiare se stessi è meglio cambiare volto, sottoporsi a torture fisiche e non affrontare il dolore esistenziale. Magari col beneplacito di dottori fintamente responsabili, che interrogati poi sul senso e le conseguenze degli efferati interventi estetico-chirurgici, preferiscono aggredire rivendicando la propria forza, la propria autorità. Un po' quello che succede di questi tempi in molte parti del mondo, poi.

L'eccessivo valore dato alla novità dà luogo al triste mercato delle emozioni (gli incontri nella finta palude, gli eccessi forzati nella cena, l’uscita al poligono di tiro), la dipendenza dallo sguardo dell'altro pare  essere l'unico motivo che determina l'esistenza dell'oggetto guardato. I protagonisti si aggirano smarriti e sempre più disperati, invischiati in un chiacchiericcio inutile e grottesco, incapaci di costruirsi un'identità che non provenga da feticci esterni, da soluzioni di breve respiro. E il finale sarà la perdita totale del sé, la non riconoscibilità assunta a cifra di riconoscimento. Non ci sono alternative, pare. La coppia vista come un soggetto asfittico, protetto dalle mani enormi della statua magrittiana, isolata dall'alta marea, nella quale le scale, la vita, proseguono al di fuori della stretta.

Tutto questo, tuttavia, viene rappresentato con ben poca attenzione a sfumature di sorta, che invece sono parte importante della vita reale, in una concatenazione dei fatti meccanica e deterministica, che infastidisce. Chiara essendo la percezione che, nelle intenzioni del regista, l'interpretazione è unica, unica quindi la verità. Infine la successione delle innumerevoli immagini allegoriche più che rimandare a uno scadimento nella maniera, serpeggiante ad esempio nel suo film precedente (L'arco), suggerisce piuttosto un'involuzione stilistica, in cui l'eccessivo mostrare e sottolineare tradisce un'intenzione di incasellamento della realtà.

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