Il cancro colpisce con maggiore frequenza da una certa età in poi. Ed è per questo che la storia di una ragazzo che si ammala a ventisette anni fa più impressione. Il cancro è una malattia di proporzioni endemiche, estremamente alla moda. Ed è per questo che ormai sono concesse persino le parodie.

La presa in giro del cancro è ciò che accade nella prima parte di 50/50 del regista Jonathan Levine, presentato in concorso alla ventinovesima edizione del Torino Film Festival. “Tu che cancro hai?”, “piacere, io sono quello del linfoma al terzo piano”, “io invece sono quello del tumore alla prostata”. È così che Adam, che è quello che ha il tumore con il nome lungo (“più lungo è il nome, peggio è”) e difficile da pronunciare, conosce i suoi  compagni di chemioterapia. Adam ha un carattere forte, una ragazza che non lo merita, una madre (Anjelica Huston) di cui rifiuta l’aiuto, e un padre con l’Alzheimer. E in più conosce una psicoterapeuta che dovrebbe fargli da sostegno, ma che in realtà finisce per sotenere. Ha poi un amico molto caro, che mantiene alto il suo umore (anche se Adam da solo se la caverebbe comunque), facendolo ridere e facendo ridere anche noi. Gli parla costantemente di sesso, nonostante tutto, proprio come un adolescente. Potrebbe sembrare che usa il tumore dell’amico per conquistare le ragazze, come a un certo punto crede di capire Adam accusandolo, nel suo unico, apicale momento di perdita di calma. In realtà è, più profondamente, la documentazione accurata di una manegevolezza, una disinvoltura nei confronti della malattia, un’emancipazione sociale, un passo in avanti, che finisce per travalicare i confini stessi del personaggio (atteggiamenti e intenzioni dell’amico di Adam) per finire dentro la sfera di un messaggio globale da trasmettere, per di più che si allinea perfettamente alla strategia di presa in giro della malattia attuata dal film. Guarire o morire è una questione di 50 e 50. La voglia di scoprire come va a finire diventa anche, contemporaneamente e molto classicamente, cioè che mantiene il film, l’orizzonte all’interno del quale si muove, e il termine ultimo a cui tendere (e qui viene fuori tutta la sua costruzione tradizionale).

50 50 film50/50 è leggero, divertente, ben recitato, ben dosato negli ecessi, molto coerente nella descrizione dei personaggi. In una parola: funziona. Il film rientra in quel filone che desidera parlare del cancro da una prosettiva diversa, quella in cui si mette in scena un’ipotetica battuta di questo tipo: “sei ammalato di cranco? Beh, non facciamone un dramma!”. E allora viene subito in mente Gus Van Sant che nel suo recente Restless cerca di fare più o meno la stessa cosa. Anche in questo caso si tratta di un cancro “giovane” che però, a differenza di 50/50, non mantiene fede all’intenzione di essere senza dramma, sdrammatizzato. Se il film di Van Sant ha una spinta decisamente nichilistica, in 50/50 troviamo tutta l’energia positiva della giovinezza. Sotto tutti i punti di vista. Vera protagonista del film, la giovinezza, indossa i panni della voglia di combattere la malattia, di un lavoro da giornalista sicuro a ventisette anni, di allusioni a eroi cinematografico-televisivi-musicali contemporanei e condivisi (Frodo, Dexter, Michael Stipe), di una casa molto bella tutta tua, di una colonna sonora tra Radiohead e Pearl Jam, di una psicologa ventiquattrenne che segue il tuo difficile caso, il terzo della sua neonata carriera. Un inno alla giovinezza e l’evidenza che sia tutto assurdamente precoce, come un cancro a ventisette anni, come una psicologa ventiquattrenne che ti confida i suoi problemi (e tutto sommato va bene così). È questo che riesce ad emergere dalla base, squarciando la – comunque presente – forte critica a un sistema sanitario di medici carrieristi.

50/50 è vero e umano, e le domande che Adam fa al medico prima che gli sottoponga l’anestesia ne sono la testimonianza (“Come fai a dire che non mi sveglierò durante l’ operazione? E chi lo dice che mi sveglierò dopo?). Paure normali.

Jonathan Levine (New York, 1976), si è laureato in semiotica presso la Brown University, ha lavorato come assitente personale di Paul Schrader, ha studiato regia all’American Film Institute di Los Angeles. Il suo primo lungometraggio All the boys love Mandy Lane del 2006 ha partecipato al Toronto Film Festival e il secondo, Fà la cosa sbagliata, ha vinto il premio del pubblio al Sundance e al LA Film Festival.

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