“L’animale ci guarda e noi siamo nudi davanti a lui. E pensare comincia forse proprio qui”

J.Derrida (L’animal que donc je suis)

Chi convive con un animale avrà sperimentato di certo una sorta di imbarazzo, di pudore quando passeggiando nudi per casa ci si imbatte nel suo sguardo. Sta lì, immobile con lo sguardo fisso su di noi e non solo ci guarda ma sembra quasi che reclami qualcosa.

“Non so se mi vedeva. Non so cosa vede uno scarafaggio. Ma lui ed io ci guardavamo e non so nemmeno cosa una donna vede. Tuttavia se i suoi occhi non mi vedevano la sua esistenza “mi esisteva” – nel mondo primario nel quale ero entrata, gli esseri esistono negli altri come un modo di vedersi.-. Lo scarafaggio non mi guardava con gli occhi bensì con il corpo… ciò che io vedevo era la vita che mi guardava.-. Mentre io indietreggiavo fino dentro me stessa in una nausea secca, e cadevo per secoli e secoli dentro il fango – era fango e non era nemmeno fango già secco ma uno umido e ancora vivo, era un fango dove si muovevano con lentezza insopportabile le radici della mia identità”.
(Clarice Lispector, La passione secondo G.H)

E’ il modo più efficace e vertiginoso di percepire per la prima volta l’Altro assoluto in cui ci troviamo rispecchiati e osservati dalla sua nudità (che essendo strutturale peraltro non è forse davvero tale), in quell’atteggiamento, pieno di vergogna e pudore (nudo come un verme, come una bestia) di chi desidera coprirsi, riverstirsi.
Ma la nudità è anche la fragilità, la nostra finitezza che viene per la prima volta messa a confronto con quella dell’animale che attraverso la sua ostinazione a non rispondere e a guardarci nella sua alterità, rimanda come in uno specchio la nostra immagine capovolta di dominatori vinti.
E quindi secondo Derrida da quel momento comincia il senso dell’Altro, del noi siamo come e altro, ma anche altro da noi stessi, da ciò in cui ci siamo ridotti, tra esigenze, bisogni, piccole prospettive, meschinerie, narcisismi, egoismi.
Lo sguardo dell’animale, la sua differenza ci obbliga in fondo a ricominciare ad essere umani.
Stavo inseguendo da tempo questo tipo di riflessione al cinema e mi sono imbattuta (come non essere “catturati” dal manifesto così provocatorio) in Storie di cavalli e di uomini.
Il film si apre sull’immagine del manto bianco di un cavallo che pian piano prende tutto il campo per poi restringersi e arrivare al particolare dell’occhio, dello sguardo (da cui inizieranno tutte le storie|e pensare comincia forse proprio qui) dal cui riflesso si intravede un uomo. E sullo sguardo dell’ altro, di sé riflesso, e delle varie prospettive e prossimità (i personaggi spesso utilizzano dei binocoli come per cambiare percezione avvicinandosi o allontanandosi da quello che stanno guardando) è incentrata tutta la sapiente regia di Benedikt Erlingsson che tenta di raccontare storie apparentemente semplici condite dallo humor nero nordico, di una piccola comunità islandese le cui vicende appunto, contano come storie che possano appartenere a un cavallo, messe cioè sullo stesso piano.
Un uomo vanesio non vede l’interessamento di una donna che lo segue da tempo ed è invece innamorato della sua giumenca bianca che si accoppierà (malgrado lui in groppa) con l’antagonista stallone nero della signora. Così la giumenca viene uccisa per il tradimento e l’umiliazione inferti e lo stallone viene castrato a riparazione del danno e i due umani riusciranno finalmente ad accoppiarsi restituendo l’immagine allo sguardo dell’ex stallone. Un alcolizzato ruba un cavallo alla steppa e si farà trasportare a nuoto per raggiungere una nave russa a cui chiederà la wodka. Un ragazzo latino-americano nella sua prima traversata a cavallo si perderà e colto da una tempesta di neve disperato troverà rifugio nel ventre del suo destriero e si salverà. Una narrazione grottesca e una serie di morti surreali e mutilazioni necessarie come a farci pensare che la nostra perfettibilità sia ormai fallimentare e che per vivere bisogna perdere qualcosa. Pochissimi dialoghi (avrebbe potuto esser muto) ritmi incalzanti, musiche trottanti visioni ristrette nell’uso della camera ossessive su cavalli e uomini, peli, pelli, giacche, capelli, visi rossi, mani ghiacciate, selle di cuoio, piccole corde, muschio, sorrisi bianchi, pupille animali, ciglia, soglie possibili, sguardi, nuovi mondi abitati da diversi-popoli-animali-che convivono e condividono-la-finitezza-della-vita.
L’Islanda patria del regista è un posto speciale e chiunque l’abbia visitata si sarà trovato davanti a uno spettacolo della natura potente, piuttosto a una sensazione, in cui gli elementi si fondono insieme in uno “sconfinamento” del loro significato originale, per collaborare ad una nuova definizione di ecosistema che non vive più di posizioni di dominio di una cosa su un’altra.
La natura spesso ci offre uno spettacolo collaborativo così potente da riuscire a ridimensionare l’ego umano e lasciarci ammutoliti, così non di rado capita che a contatto con essa ci si distacchi più facilmente dalla caratteristica primaria che ci contraddistingue il linguaggio, per farci corpo e che l’animale (forse) si “umanizzi” attraverso lo sguardo, per contribuire ad una nuova relazione più paritaria, senza subordinazione.
Tale condizione di governo dell’equità credo possa avvenire solamente in un territorio nuovo, s-conosciuto, “senza recinti”, in una dimensione di “mancanza”, di caduta di giudizio, in cui tutti si sia disposti a “perdere” qualcosa di sé per integrarlo con l’altro, qualunque esso sia (cosa persona animale vegetale mondo) cosicché la coesistenza diventi trasformativa e mai di sfruttamento.

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