Quattro pareti bianche, due tavolini che sembrano banchi di scuola, poche sedie, una ampia cattedra. In questo semplice scenario si svolge il terzo episodio diretto da Ronit Elkabetz e Schlomi Elkabetz , già autori di E prenderai moglie e Seven Days, rispettivamente dedicati al matrimonio e al funerale, tappe di una via crucis in cui pessimisticamente viene scandita l’esistenza, e che ora (per ora) si conclude con l’ultimo dei rituali sociali della famiglia, ovvero il divorzio. Interpretato sempre dalla stessa coppia di attori ( la stessa Roni Elkabetz e Simon Abkarian ) è un film dalle molteplici sfaccettature, che viene quasi istintivo paragonare a Una separazione di Farhadi, ma che ne è lontano anni luce: diversamente dall’impianto pirandelliano del regista iraniano secondo cui niente è ciò che sembra in un continuo rimando di immagini della verità in un labirinto di specchi (gioco che comincia a mostrare i suoi limiti in Il passato, ad esempio), “Viviane” ha un andamento più lineare, che gioca con la griglia del legal thriller, e su questa ricama la trama della tragedia greca. Pochi sono i personaggi: marito, moglie e rispettivi avvocati difensori. Il “coro” tragico che fa da contrappunto alla loro guerra privata sono i testimoni che sfilano in aula, uno stolido cancelliere che ripete tutto mentre lo trascrive, e tre rabbini impassibili come divinità maligne, come  tre parche che tagliano in continuazione il filo del destino di Viviane, impedendole di recuperare la libertà.  Si, perché nello stato di Israele, che immaginavamo piuttosto laico per queste cose (malgrado la minoranza ultraortodossa e il suo ruolo politico su cui non è questa la sede adatta a soffermarsi), matrimonio e divorzio sono regolati esclusivamente secondo precetti religiosi e in materia può pronunciarsi solo un tribunale rabbinico. Solo il marito ha il potere di concedere il divorzio (con una complicatissima e ridicola cerimonia, peraltro), se la donna si allontana da casa come Viviane, per la legge è in torto, e la legge rabbinica ha come unico fine che la famiglia torni a ricomporsi, tanto le liti fanno parte della routine.

Sola in mezzo a tutti uomini (ma con al suo fianco un avvocato laico e progressista), Viviane combatte per mesi e anni cercando di non farsi stritolare da un delirante meccanismo kafkiano: il marito Elisha infatti non sempre si presenta alle udienze, vanificando il cammino fatto fino a quel momento, assolda il fratello come avvocato e poi lo rigetta,  dichiara e smentisce, implicitamente sempre appoggiato dal tribunale in quanto uomo ufficialmente pio, religioso, buon padre, marito tollerante. Anche i testimoni che dovrebbero essere a favore di Viviane, come il fratello, finiscono tutti per condannarla: perché lasciare quest uomo così giusto? Non capisce che una donna sola, divorziata, è una donna perduta? Che una donna senza un uomo non vale niente? Con buona pace dell’idea del potere della donna nella cultura ebraica, incarnato nella terribile yiddish mame di tanta letteratura e cinema (Portnoy e Woody Allen), o quella è una figura mitica ed esclusivamente diasporica? Oppure è il risultato di una serie infinita di vessazioni pubbliche a renderti una donna frustrata e dispotica tra le mura di casa tua?

Nessuno è davvero come sembra, nell’aula di tribunale, tutti hanno qualcosa da nascondere: testimoni reticenti, avvocati un po’ meno professionali di quello che sembra, e soprattutto i due coniugi, che per tutto il tempo si scambiano occhiate di odio senza rivolgersi la parola. La trama agghiacciante del loro matrimonio emerge gradualmente dai racconti degli altri, a loro volta non meno disperati, che finiscono per confessare il meccanismo vittima/carnefice che si nasconde nei loro matrimoni altrettanto apparentemente perfetti.

Più che ad Antigone o al Pirandello di Farhadi, siamo più vicini qui a Eduardo: Viviane è una sorta di Filumena Marturano (anche lei ha dovuto occuparsi per anni di una suocera inferma, allevare i figli, fare la serva a tutti senza mai una parola di gentilezza e di gratitudine), impietrita dalla rabbia, nerovestita e tragica, ma al contrario di Filumena, serva che attraverso il matrimonio voleva la legittimazione, Viviane la pretende attraverso il divorzio, la libertà di abbandonare un uomo che la definisce il suo castigo e che per punirla vuole negarle la libertà. O che la ama ma non concepisce altro modo che l’odio per tenerla legata a sé.

Interpretato dai più bravi e famosi esponenti del cinema israeliano contemporaneo, “Viviane” è un thriller nel vero senso della parola perché riesce a inchiodare lo spettatore con il fiato sospeso, non tanto per il desiderio di conoscere l’esito della controversia, quanto di cogliere indizi, ricostruire situazioni, respirare all’unisono con i protagonisti,  di cui la macchina da presa di volta in volta sostituisce lo sguardo. Rinunciando al sostegno del piano sequenza, si susseguono soprattutto inquadrature fisse, e nemmeno troppi primi piani (significativamente concentrati nelle rarissime sequenze che si svolgono nel corridoio davanti all’aula, dove talvolta si incontrano i personaggi prima dell’udienza): gli attori parlano in macchina, ma i dialoghi e la recitazione sono talmente convincenti che lo spettatore non ha mai la metacinematografica sensazione della forzatura poetica, del rivolgersi a lui (come per esempio, con ben altri intenti, accade in Torneranno i prati di Olmi).

Sguardi,  domande, risposte, insinuazioni si susseguono senza sosta per mesi e anni. E nei pochi momenti di silenzio, esplodono urla e alterchi delle aule giudiziarie contigue, a ricordarci che questa è solo una storia tra tante.

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