Siamo di fronte, se non al capolavoro, ad uno dei film più belli ed importanti di Luigi Zampa: Processo alla città, del 1952, scritto, con ammirabile sapienza dal regista stesso, insieme a Suso Cecchi D’Amico, Ettore Giannini, Diego Fabbri e Turi Vasile. Si tratta di un soggetto piuttosto raro nel cinema italiano: un dramma giudiziario, e se l’operazione risulta più che riuscita è perchè le istanze civili e morali del neorealismo cinematografico italiano s’inseriscono nel solido impianto di un melodramma popolare piuttosto sensibile alla lezione del cinema americano. Il film risulta ancora oggi attualissimo per le dinamiche comportamentali che racconta, perchè, seppure ambientato in un contesto ormai lontano più di un secolo, mostra con preziosa asciuttezza linguistica, una realtà terribilmente simile alla condizione sociale e purtroppo criminale della Campania contemporanea divorata da organizzazioni antistatali. Ma Processo alla città, film attento a non cadere mai nei tranelli del bozzettismo e del facile macchiettismo, anche se a tratti si opacizza leggermente di schematizzazione, è moderno anche nel ritmo, e pur avendo una contestualizzazione marcatissima, può essere apprezzato, ancora oggi, anche da chi della Camorra non sa nulla.

Film nato da una collaborazione tra importanti intellettuali italiani, Processo alla città è stato ideato e voluto anche da un giovanissimo, e non ancora cineasta, Francesco Rosi. Era più o meno il 1950 e La Sfida, opera prima dell’autore napoletano, nonchè uno tra gli esordi italiani migliori di sempre, sarebbe uscito nelle sale cinematografiche italiane soltanto otto anni dopo, nel 1958. Il giovane Rosi, in quel periodo, insieme ad Ettore Giannini, il futuro regista del grande musical italiano Carosello napoletano, del 1953, voleva realizzare un film sulla Napoli dell’inizio del ventesimo secolo, e sulle mani che, per dirlo proprio alla Rosi, la camorra aveva già messo su quel contesto culturale, sociale ed ambientale. I due intellettuali immaginarono un racconto che partisse da uno dei più eclatanti fatti di sangue di quegli anni: l’omicidio di stampo camorristico dei coniugi partenopei Gennaro Cuocolo e Maria Cutinelli. Era il 5 giugno del 1906, quando, in località Calastro, a Torre del Greco, fu rinvenuto il corpo del Cuocolo, mentre a Napoli città, in via Nardones 95, fu ritrovato quello di sua moglie Maria Cutinelli. Si trattava di una doppia barbara uccisione, e l’opinione pubblica napoletana sollevò una vasta ondata di sdegno collettivo, richiedendo una dura ed immediata repressione da parte dello Stato. Ma nello stesso tempo, quel duplice efferato delitto, si mostrò da subito come un caso di difficile soluzione, tanto che i risultati delle prime indagini della polizia, all’inizio imprecise e superficiali, facevano presupporre ad una rapida archiviazione del caso stesso. Ma il governo Giolitti, probabilmente sulla spinta emotiva che il dramma aveva suscitato, riaprì l’inchiesta e la affidò al capitano dei carabinieri Carlo Fabbroni, il quale scelse, come aiutante fidatissimo, il maresciallo Erminio Capezzuti. Il lavoro di ricostruzione dei fatti andava comunque a rilento, vista la totale omertà degli ambienti camorristici e la difficoltà enorme a trovare prove o semplicemente indizi. Soltanto un colpo di fortuna potè dare una svolta alle indagini: ad un certo punto qualcuno iniziò a parlare, prima con piccole ammissioni e poi facendo nomi e cognomi di tutti gli appartenenti all’organizzazione malavitosa campana. Col passare dei mesi e con un duro lavoro di investigazione, furono arrestate più di settanta persone per camorra, di cui quarantasette soltanto per l’omicidio Cuocolo. Fu un duro colpo per la malavita organizzata napoletana, e nello stesso tempo quel crimine, e tutte le sue conseguenze clamorose, avevano fatto diventare quell’accadimento tragico un fatto di pubblica memoria per la città.

Giannini e Rosi sapevano di essere alle prese con un progetto di grande ambizione, ma nello stesso tempo erano consapevoli delle pericolose trappole piazzate lungo tutto il loro tortuoso cammino. C’era la piena coscienza di quanto fosse duro il lavoro soggiacente a un film del genere, perchè si palesava la necessità di conoscere approfonditamente non solo i particolari della storia da raccontare, ma anche di tutti gli aspetti sociologici e culturali della Napoli e della camorra campana di cinquant’anni prima. Chiunque avesse realizzato il progetto avrebbe dovuto lavorare con molta cura sulla precisione delle ricostruzioni ambientali, sui luoghi da ricomporre e sugli aspetti della vita politica e sociale del capoluogo campano a cavallo tra i due secoli. E poi, ovviamente, una volta fatto questo, bisognava tradurre quella realtà, così fertile narrativamente, in un valido racconto cinematografico. Insomma, un bel da fare, ma in questo senso Luigi Zampa ha lavorato con grande passione ed attenzione, stando attento a tutti gli aspetti appena citati e riuscendo a creare delle atmosfere assai attraenti. Questa precisione la possiamo riscontrare già a partire dalla scelta di tutto il cast di contorno, con le facce e gli atteggiamenti azzeccati da parte di ogni carattere. Zampa andò a scegliere i vari componenti di questa grande coralità interpretativa tra un teatro e l’altro di Napoli, pescandoli, sagacemente, negli ambienti
della sceneggiata partenopea.

Ma questo solo tempo dopo, perchè il progetto che Rosi e Giannini avevano in mente stentò per parecchio tempo a prendere vita, e solo quando la buona sorte venne incontro agli ideatori, proprio come nelle indagini dei carabinieri sulla vicenda reale, il lavoro potè prendere veramente inizio. Le cose andarono in questo modo: passeggiando nei pressi della stazione di Napoli, tornando da uno dei suoi tanti viaggi a Roma, Rosi scoprì, curiosando tra le bancarelle, due vecchi libri introvabili che ricostruivano accuratamente la cronaca dell’omicidio Cuocolo. Il futuro regista de La Sfida e Le mani sulla città (entrambi ambientati in una Napoli dolorosamente protagonista) lesse tutto d’un fiato i due testi, e si mise a capofitto nella scrittura di una breve bozza di sceneggiatura, che poi affidò all’estro creativo di Turi Vasile, intellettuale e artista siciliano a tutto tondo, attivo sia sul fronte letterario che su quello teatrale e cinematografico. Suo, giusto per fare un esempio simpatico, il film Gambe D’Oro, interpretato dall’infinitò Totò. Vasile curò la produzione della pellicola e partecipò alla stesura della sceneggiatura con Ettore Giannini e gli altri preziosi collaboratori già citati, tra cui lo stesso regista Zampa. Il quale, affiancato nella regia da assistenti che avrebbero poi percorso una solida carriera personale (parliamo di Nanni Loy e Mauro Bolognini) riempì il film di facce e luoghi, ma anche di azioni e dialoghi asciutti e precisi.
Il film si apre con il ritrovamento di un cadavere sul mare, ma subito dopo vediamo un bambino cantare una splendida e antica canzone napoletana davanti a un dedalo affascinante e fatiscente di vicoli e palazzi. E’ solo un esempio tra i tanti, per un film che ancora oggi mostra una piacevole riconoscibilità di strade e vicoli tipici della struggente e meravigliosa Napoli. Semplicemente straordinario il paesaggio notturno della città, sembra Algeri, sembra un luogo ricostruito in studio, avvolgente, misterioso, inquietante, magico ed incredibile nella sua antica bellezza.

Abbiamo velocemente raccontato la genesi di un film intenso e liberamente ispirato ai fatti del processo Cuocolo, che nel film diventa “Ruotolo”. Si racconta di un giudice istruttore che, a partire da un misterioso duplice omicidio, scopre importanti ed inquietanti legami tra camorra e ambienti bene di tutta la città di Napoli. Al suo fianco opera l’integerrimo ed istintivo delegato di Polizia Perrone, interpretato in maniera anche qui impeccabile dal grande Paolo Stoppa. Scartavetrando faticosamente l’unico indizio casualmente in suo possesso (un giovane interpretato da Franco Interlenghi è stato arrestato nella stessa località e nello stesso momento dell’omicidio Ruotolo), il giudice Spinacci tenta di ricostruire i fatti andando ben oltre la semplificazione delle prime apparenze. Il suo lavoro procede con rigore e scrupolo per assicurare alla giustizia tutti i colpevoli, ma il groviglio di fili che egli si trova a dover dipanare è avvolto in matasse inestricabili e la situazione si mostra sempre soggetta a nuovi colpi di scena. Stupenda, in proposito, è la sequenza del ristorante sul mare, giocata con ironia e severità attraverso un numero altissimo di personaggi messi in silenziosa fila dal monologo del giudice, un discorso pieno di sostanza e fluidità che rappresenta uno dei momenti più intensi di un intenso film. E’ anche il momento in cui una giovane Silvana Pampanini canta la canzone Tradimento.

Col passare dei giorni e delle testimonianze, non solo si moltiplica esponenzialmente il numero degli indiziati, ma vi compaiono persone tanto insospettabili quanto autorevoli e potenti. Si intravede un intreccio di corruzione alta e bassa, in un sistema in cui allo stato si sostituisce già allora un’altra forma di governo. Come hanno ben notato Tullio Masoni e Paolo Vecchi in un articolo apparso su Cineforum n. 314I, del 1992, c’è una sequenza del film quella nel banco dei pegni, in cui si fronteggiano alla pari lo stato e l’antistato: come rappresentanti emblematici di forme opposte e in certo senso complementari di Giustizia: l’uno è la legge scritta dello Stato, l’altro la legge d’onore della Società.

Per il giudice iniziano pressioni e minacce, incontra dappertutto dissensi, soprattutto col complicarsi della faccenda, anche tra i suoi collaboratori più stretti e tra i stessi suoi familiari. Spinacci finisce per scoraggiarsi e medita persino di mettere da parte il suo dovere e la sua professionalità. Soltanto quando altro sangue scorrerà, e stavolta per giunta anche innocente, egli troverà la forza di ravvivare la coscienza della propria responsabilità, e deciderà di andare sino in fondo. La coraggiosa decisione avviene solamente quando uno dei pesci più piccoli e meno colpevoli dell’intrigo, proprio l’ingenuo e speranzoso Franco Interlenghi, muore schiacciato da un treno, convinto che la giustizia si voglia accanire su di lui e che il suo sogno di emigrare in America (quasi unica possibilità per chi, già allora, voleva trovare un lavoro onesto) sia destinato a rimanere tale. A quel punto il giudice mantiene tutti gli indiziati in stato di arresto, decidendosi a firmare tutti gli ordini di cattura e resistendo alle pressioni provenienti da tanti ambienti diversi.Il personaggio del tenace e coraggioso giudice istruttore è interpretato da un deciso e statuario Amedeo Nazzari, bravissimo a far svettare la sua efficace interpretazione sopra una galleria di personaggi minori interpretati con meticolosa attenzione da attori meno famosi di lui, ma di altrettanta navigata esperienza e bravura (Dante Maggio, Silvana Pampanini, Franco Interlenghi, Mariella Lotti, Turi Pandolfini, Tina Pica). Nel 1952 Nazzari era un divo già maturo e acclamatissimo: Luciano Serra pilota era del 1938, La cena delle beffe del 1941, e c’era già stato Catene, del 1949, uno dei più famosi melodrammoni strappalacrime di Raffaello Matarazzo, omaggiato anche, con riuscita ilarità, dal Tornatore di Nuovo cinema paradiso, quando il grande Tano Cimarosa, prezioso caratterista italiano, ripeteva tutte le battute del divo Nazzari sullo schermo: “Tu…..mi ami?” “Si….ti amo…”  Qualche anno dopo, nel 1957, persino Federico Fellini omaggerà, stavolta con un pizzico di ironia, mettendo in luce la parabola discendente della sua carriera, il grande attore sardo. Accadde con Le Notti di Cabiria, quando la povera prostituta Masina si imbatte nel bel brizzolato in crisi e fa la fanatica con le sue colleghe: “Sapeste chi è questo…” Ma fino a qualche anno prima Nazzari si avvicinava più di qualunque altro attore italiano ai canoni dei divi hollywoodiani, e intorno al 1952, anno di Processo alla Città, era ammirato per la figura alta ed imponente, per il portamento elegante, per il fascino d’uomo maturo.

Nota: alcune in
formazioni sulla genesi del film sono state raccolte dal sito Proletaria.it, da un articolo firmato da Antonio Frattasi

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